La bellezza tradita

Spiaggia Rena Bianca

“S’innamorò perdutamente della sua terra, come non gli era mai successo, fino alla commozione. Le spiagge erano smaglianti allora, il mare era puro cristallo. Tutto era reso meraviglioso dallo sguardo della giovinezza. A ogni ritorno raccontava di una cala, di una baia, di un passaggio fra gli oleandri. E ogni volta prometteva di portarci mia madre. La stagione del loro innamoramento coincise in tutto con l’apice della purezza e dello splendore. Penso che mio padre pensasse a quanto era stato fortunato di amare una donna bellissima in una terra bellissima.(…)

(…) Credo che allontanarci dalla passione di quella bellezza semplice sia stato l’errore fatale. Perché oggi, che ogni possibilità di salvezza pare consumata, si vorrebbe ritornare a quell’infanzia lontana e irraggiungibile che ci faceva vivere la meravigliosa e delicatissima complessità del nostro territorio senza che ne avessimo una precisa coscienza. Era come respirare, era come quando ci si innamora”.

di Marcello Fois, da Repubblica (22 novembre 2013)

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Berthe Morisot, la sola donna pittrice tra gli Impressionisti

Edouard_Manet Berthe Morisot

Édouard Manet, Berthe Morisot au bouquet de violettes, 1872

Questo ritratto, singolare e affascinante al tempo stesso, è stato considerato dai contemporanei dell’artista come uno dei suoi capolavori. Manet preferisce proiettare sulla sua modella una luce intensa e laterale, al punto che Berthe Morisot sembra essere solo ombra e luce. La Morisot, che è raffigurata con gli occhi di colore nero mentre in realtà li aveva verdi, indossa un abito e un cappello neri: senza dubbio il modo migliore per esaltare la sua bellezza “spagnola” come appare in tutta la sua evidenza già dalla sua prima comparsa nell’opera di Manet nel 1869.

La relazione strettissima che è esistita fra  tra i due pittori è tuttora oggi, dopo più di un secolo e mezzo dal loro primo incontro, avvolta di mistero. Fu Amore? Passione? Amicizia amorosa?

Diverse biografie dell’artista ne hanno accennato.

Una di queste: “Berthe Morisot. Le secret de la femme en noir” di Dominique Bona (Editeur Grasset) partendo la questo celebre ritratto parla di colei che fu non una delle tante modelle di Manet, ma la sola donna fra gli Impressionisti. Amica di Degas, Monet, Renoir, Mallarmé, Puvis de Chavanne.  Scrive Dominique Bona : « Ardente mais ténébreuse, douce mais passionnée, aimant la vie de famille mais modèle et amie – et qui sait? peut-être davantage – pour Edouard Manet dont elle épouse le frère. Il y a une énigme dans les silences et les ombres de Berthe Morisot ».

Non si sa con certezza (ma Dominique Bona ci crede fermamente in base alle ricerche che ha effettuato e grazie a una serie di prove coerenti) se Berthe Morisot ha amato o sia stata amata da Manet. Quel che è certo è che Manet  fu con Degas, che divenne il suo “padre putativo”, il pittore che ammirava di più.

E’ un pomeriggio grigio dai toni vagamente brumosi. La giovane artista lo trascorre in compagnia della sorella Edma sotto le volte dei saloni del Louvre. Frequentano l’Accademia delle Belle Arti. Berthe ha compreso che il modo più efficace per divenire grandi passa dall’ammirare, interiorizzare, ricopiare tutte quelle pesanti tele, lasciando spiegare le vele dell’immaginazione, spingendosi con temerarietà laddove gli artisti del passato hanno avuto il coraggio d’inoltrare la spola rivoluzionaria delle loro visioni e riallacciandosi con forza all’eterno discorso sulla bellezza: una bellezza che oltrepassa il tempo, che permea i luoghi, che conferisce spessore agli spazi claustrofobici del museo.

Edma è meno attenta, meno ostinata, il suo carattere docile sembra cedere in fretta agli assalti della noia e degli sbadigli, distogliendo ogni interesse dagli studi ossessivi della sorella protratta invece verso la meravigliosa sapienza evocativa di Raffaello, annichilita dalla furia impetuosa di Caravaggio, segnata dal tormento intraducibile dell’ultimo vibrante Michelangelo.

Berthe copia, cancella, passa e ripassa le dita sulla carta, trascinando sul bianco dei pesanti album minuscole punte di grafite. Sotto i polpastrelli le rappresentazioni universali dell’arte italiana recuperano armoniosamente forma e volume, le pupille si riaccendono, le bocche tornano ad aprirsi in tenui sorrisi, i corpi si rassodano nel prodigio espressivo del chiaroscuro. Edma reclama una pausa, spazientita dalla stanchezza e chiede alla sorella di interrompere l’estenuante seduta. Ma quel che Berthe sente è più forte, più necessario, più terribilmente importante della vita esterna, del traffico delle carrozze su rue de Rivoli, del richiamo dei caffè dalle vampe fiammeggianti, della realtà folle che trepida e sussulta al di là del riparo silenzioso e quieto dell’arte.

Poi, mentre il flusso dei visitatori si smorza, Berthe non può impedirsi di notare l’elegante figura maschile venuta a occupare il margine del suo campo visivo. L’uomo siede sull’enorme divano. Il volto della giovane, quegli occhi profondi non riescono a nascondere il fuoco che arde in fondo allo sguardo con cui lo sconosciuto la sfiora, l’accarezza, la penetra. Berthe trattiene il respiro, le tremano le mani. Edma si allontana in direzione del corridoio e li lascia soli. Un istante di terrore, giusto l’impercettibile scheggia di tempo sufficiente a redimerla e a condannarla. Per sempre. Perché basta davvero un briciolo d’eternità per rivelare alla ragazza la pienezza del proprio struggimento.

L’uomo risponde al nome di Édouard Manet e le sta sorridendo, facendosi più vicino per ammirare la delicata grazia del disegno. “Aggiunga un po’ di colore – dice – un tocco soltanto, giusto l’abbaglio d’un lampo. Lo carichi di luce, qui e qui. Benissimo”. Adesso dice qualcosa che lei non comprende con chiarezza e sospinge l’indice paffuto a qualche centimetro dal foglio, le rivolge parole tenere, premurose, eppure la spaventa. Una specie di elettricità corre tra i corpi fermi. L’uomo sembra apprezzare enormemente la sicurezza del suo tratto, i rettangoli sfumati entro i quali Berthe ha deciso di racchiudere la malinconia, la morte del giorno. Si rivedono la settimana successiva dopo sette notti nelle quali la ragazza non ha smesso un attimo di pensarlo, di ripassare a mente le linee nitide del suo volto, rapita dalla folgore inquieta delle pupille. Lui le parla della poesia delle impressioni, dell’intuizione che lo colma, e del quadro che ha in mente: campiture d’azzurro densissime, arterie di verde e d’arancio tramite cui il creato rivela, come per un dono, l’essenza imprendibile dei suoi misteri.

Dopo quel primo incontro lei confessa alla sorella nella primavera 1869: “Lo trovo decisamente affascinante e mi piace molto”. Di solito avara di complimenti, portata più all’ironia e alla derisione, Berthe si arrende davanti a questa personalità leggera e seducente, così diversa dalla sua. Tanto Manet è un uomo di amicizie e di aperture, quanto lei una donna di solitudine e di introversione. Quanto lui è spontaneo e solare ed emana un fascino naturale, tanto lei è riservata, tenebrosa e possiede un enigmatico alone di mistero.

Nonostante la grandezza del talento istintivo, al di là della bellezza pura e disarmante di Berthe che accetta di fargli da modella, Edouard non può permetterle di mettere a repentaglio la sua pace.

Manet ha trentasei anni, è un artista conosciuto ma i suoi quadri non riescono a trovare acquirenti, il suo dipinto Le déjeuner sur l’herbe è stato rifiutato al Salon di Parigi. Ha fama di tombeur de femmes, malgrado sia sposato con una pianista olandese non si nega le amanti. Berthe accetta di fargli da modella per un quadro, ma il pittore, affascinato dalla personalità della giovane artista, insiste perché posi ancora per lui. Fra Berthe e Manet si instaura una strana alchimia: attratti l’una dall’altro, il loro rapporto procede alternando momenti di vicinanza quasi intima a periodi di allontanamento. Quando sembra che Edouard voglia cedere alla passione, all’improvviso si allontana mostrandosi indifferente.

Fra i corteggiatori di Berthe il più tenace è Eugène Manet, fratello di Edouard, il quale, dopo una lunga e paziente corte, decide di chiederla in moglie. Berthe tentenna, pur apprezzando la dolcezza e la mitezza di Eugène, non si sente pronta per il matrimonio e con estrema delicatezza rifiuta la proposta. Edouard le chiede di posare un’ultima volta per lui, Berthe accetta e decide di affrontare con lui la questione del loro rapporto. E’ posseduta da una febbre che chiede di essere placata con la chiarezza. Manet finalmente si scopre: è perché la ama e la rispetta che non ha voluto farne la sua amante, come ha fatto con tante altre modelle che ha ritratto. Ma Berthe sa che se non lascerà bruciare il fuoco che la possiede fino a che diventi cenere, lei non sarà libera. La relazione fra i due è intensa, totale, ma ad un certo punto il pittore incontra Victorine Meurent, sua modella e amante del passato, che gli chiede di posare ancora per lui. Manet accetta. E’ la prima mossa che porterà alla fine della relazione fra lui e la Morisot. Berthe comprende che la passione si va spegnendo e che al suo posto si va insinuando la malinconia di ciò che si sta per perdere.

Édouard ha scacciato con foga ogni richiesta d’amore, rinchiuso nell’ombrosa ostilità di un bieco risentimento, ora la guarda con la cattiveria difensiva dei codardi, ora la giudica, non tollera più le qualità che prima l’avevano attratto e spinto ad avvicinarla e ammirarla. Berthe si trova davanti al bivio che molto spesso ha annientato molte delle più geniali donne del suo tempo: rinunciare definitivamente all’uomo che ama rifugiandosi nel rituale duro e sofferto dell’elaborazione pittorica oppure insistere, fare di tutto pur di averlo, a qualunque costo, reprimendo dentro di sé la falda ipersensibile che l’incontro apre nella sua anima.

Sceglierà la seconda strada, compiendo una scelta saggia ma piena di dolore: sposare Eugène, il fratello di Édouard, meno artista ma più affidabile e concreto (il 22 dicembre del 1874 Berthe Morisot sposa Eugène Manet e dalla loro unione nascerà la sua unica figlia Julie; marito e figlia sono presenti un numerosi quadri dell’artista). Berhte smetterà di posare e fisserà nel giardino di rose che si apre all’interno del cortile della decorosa palazzina al 40 di rue Paul Valery dove andranno ad abitare, la sede ufficiale del circolo di artisti che si riunisce ogni giovedì, una vera scuola di maestri e letterati. E’ nel salotto di Berthe che l’Impressionismo troverà la maniera di maturare la sua meravigliosa parentesi storica, tra le siepi fiorite della sua casa che l’ala più ribelle e anticonformista della corrente artistica avrà modo di formulare stabilmente il chiacchierato elenco dei suoi princìpi estetici.

Berthe continuerà a studiare, rispettare, probabilmente amare nell’ombra l’eccellente cognato, pure quando tutti gli uomini della famiglia verranno chiamati alle armi, e sola, in compagnia della figlioletta e di qualche serva, attraverserà gli anni dolorosissimi degli stenti, della malattia, della solitudine, piegata come il tronco di un ulivo, ma maestosamente fedele a se stessa e al dettato della sua meravigliosa poetica. Nelle scene campestri, nei sentieri erbosi battuti dal vento, nella lenta pendenza delle pianure annerite dei frequenti rovesci, in molti dei suoi capolavori sparsi per i musei di mezzo pianeta, o in quelli che adornano e dilatano le sontuose pareti del Marmottan a Parigi, e al Muesée d’Orsey è possibile risalire a tutte le diverse declinazioni viventi del suo umore, lasciandosi cullare dall’eloquio dei suoi stati d’animo e facendosi prendere la mano per scendere, con lei, tra i misteri di questa artista e donna dal tratto eccezionale.

Il teorema della scelta umana ed esistenziale di Berthe Morisot trova la più accorata conferma nel minuscolo suggestivo cimitero di Passy.

Nel febbraio 1895, Berthe si ammala e muore di polmonite il 2 marzo 1895, lasciando in eredità la maggior parte delle sue opere ai suoi amici artisti Degas, Monet e Renoir. La tutela di sua figlia Julie, è affidata al suo amico e poeta Stéphane Mallarmé e a Pierre-Auguste Renoir per la sua formazione di pittore. Nonostante la sua ricca produzione e mostre, nel certificato di morte di Berthe Morisot si trova scritto : “sans profession” (senza professione!). Fu sepolta nella cripta della famiglia Manet al cimitero di Passy dove è semplicemente inciso “Berthe Morisot, vedova di Eugene Manet.”

 

Le Berceau [La Culla], 1872

Le berceau

 Berthe Morisot (Bourges, 14 gennaio 1841 – Parigi, 2 marzo 1895), Olio su tela Cm 56 x 46, Museo d’Orsay

La Culla è indubbiamente il quadro più famoso di Berthe Morisot. Dipinto nel 1872 a Parigi, raffigura Edma, una delle sue sorelle, mentre guarda dormire la figlioletta Blanche. Questa è la prima volta che una figura materna appare nell’opera della Morisot diventerà uno dei temi preferiti dall’artista.

Berthe Morisot partecipa con La Culla alla mostra impressionista del 1874 diventando di fatto la prima donna ad esporre le sue opere con il gruppo. Il quadro viene a malapena notato. Tuttavia, alcuni tra i principali critici ne colgono la grazia e l’eleganza. Dopo aver cercato invano di vendere il quadro, Berthe Morisot non lo mostrerà più in pubblico e l’opera sarà conservata dalla famiglia di Edma fino alla sua acquisizione da parte del museo del Louvre nel 1930.

Lo sguardo della madre, la linea che disegna il suo braccio sinistro piegato al quale corrisponde il braccio anche esso piegato della neonata, gli occhi chiusi della piccina tracciano una diagonale che mette maggiormente in evidenza il movimento della tenda sullo sfondo. Questa diagonale stabilisce un’unione tra la madre e la sua bambina. Il gesto di Edma, che frappone il velo della culla tra lo spettatore e la neonata, contribuisce a rafforzare ancora di più questo sentimento di intimità e di amore protettivo espresso nel quadro.

Fonti : sito  http://www.musee-orsay.fr/

“La Sardegna è diversa” (luoghi piuttosto comuni da sfatare)

alluvione Sardegna

Immagine: Alluvione in Sardegna dal sito http://www.ilgiornaledellaprotezionecivile.it  (giovedi 21 Novembre 2013)

Tutte le terre sono imprigionate nei luoghi comuni. Ma la Sardegna, forse, più di altre rimanda ad immagini sterotipate. Da una parte le ville sulla Costa Smeralda dall’altra un entroterra che rimanda a un mondo arcaico e alla pastorizia. In questo articolo sulla mia terra d’origine, intendo percorrere sentieri nuovi per abbattere le convenzione di una terra troppo spesso vittima della sua stessa epica.

Se do un ritratto invernale della Barbagia, dove il clima alpino, il freddo secco, la neve sono le caratteristiche principali, sembrano elementi di un quadro esotico. Eppure, dentro a quelle montagne abita la sostanza di un territorio molto folklorizzato ma ancora sconosciuto nella sostanza. È proprio l’inverno che dà alla Barbagia quella profondità di territorio vivo, che differenzia il viaggiatore dal vacanziere. Perché come l’estate sostanzia il mare, l’inverno sostanzia i monti.

Quando mi chiedono qui in Francia da quale parte dell’Italia arrivo e dico Sardegna, mi sento rispondere: “l’ile? C’est l’Italie aussi?” (l’isola? E’ anche li’ Italia?). Oppure: “ah c’est trop cher aller la bas! ( è caro andare in Sardegna, è un posto esclusivo, da ricchi, d’élite, etc…).

Eh si’,  perché spesso, molto spesso parlare di Sardegna è solo sinonimo di coste, mare, Costa Smeralda, vacanze.

Quasi inutili le mie proteste per dire “ la Sardegna non è solo quello!”.

E’ difficile pensare a un’operazione di marketing di maggior successo come quella che da più di 30 anni ha come imprigionato la Sardegna nell’immaginario collettivo di milioni di italiani (e non) alla bellezza delle sue Coste. Il Nord-est dell’isola, la costa Smeralda, il glamour che Porto Cervo e Porto Rotondo garantiscono ogni estate , sono posti addirittura consacrati a tempio di chi puo’ e di chi vorrebbe magari, ma si deve accontentare di guardare da lontano.

Eppure agli occhi di un sardo poche cose sono più lontane dalla sua percezione della sua Terra delle dorate spiagge galluresi: “La Sardegna è un’altra cosa” , direbbe. Infatti noi sardi quando ci chiedono com’è la Sardegna diciamo: “La Sardegna è diversa”. E in effetti noi la sentiamo  diversa in 2 modi. Il primo è che la sentiamo diversa dal resto del Mondo, vicino o lontano che sia: per noi Civitavecchia o Roma sono diverse quanto New York o Parigi, per dire. Il secondo è una diversità che forse il visitatore coglie meno o perlomeno capisce meno immediatamente cioé che esistono diverse Sardegne, per cui ognuno di noi ha come sua propria appartenenza, oltre all’appartenenza all’isola, non tanto la città o al paese dove abita, quanto la regione: la Gallura, la Barbagia, il Logudoro, il Campidano, l’Ogliastra…regioni che hanno una storia diversa, avvenimenti diversi, conquiste di passaggi diversi, cibi diversi e addirittura le lingue diverse. La Costa Smeralda è per certi versi un paradiso artificiale, troppo assimilato al gusto italiano, se non addirittura internazionale, per appartenere più soltanto all’isola. Infatti c’è un’altra Sardegna e l’altra Sardegna è la Alghero catalana, la Cagliari aragonese, il Campidano degli agricoltori, la Barbagia dei pastori, il Sulcis delle miniere, le montagne del Gennargentu, il “deserto” di Piscinas: paesaggi, storie e tradizioni spesso contrastanti, talvolta contaddittori. Questi sono i tanti volti che per i Sardi è la vera realtà.

Comunque ci si arrivi, in nave o in aereo, in Sardegna ci si arriva dal mare, visto che la Sardegna è per grandezza la seconda isola italiana e di tutte la più lontana. Ma per raccontarla bisogna partire proprio da qui: dal mare. I quasi 2000 Km di costa rappresentano oltre un quinto di tutte le coste italiane, ma del loro meraviglioso mare i sardi per secoli non hanno mai apprezzato la bellezza: ne hanno sempre e solo avuto paura. “Dal mare sono sempre arrivati solo guai, non ultimi, dice ironicamente qualcuno, i turisti”. Anche questi sono stereotipi ormai aquisiti e ripetuti come un mantra: “dal mare sono arrivati i dominatori: prima Cartaginesi e Romani, poi Bizantini, Pisani, Genovesi, gli Spagnoli, i Piemontesi e la sua storia intima non si comprende se non si decifrano le ragioni della paura che ne hanno esasperato il naturale isolamento”. E anche:”dal mare ci si doveva diffendere, per questo da millenni la popolazione si è progressivamente ritirata e concentrata nell’Interno”.

“In Sardegna, la Barbagia è una Sardegna – dice lo scrittore nuorese Marcello Fois – una delle tante”. Poche cose uniscono i sardi in senso di popolo, una di queste è senza dubbio il mare che li circonda. E i padri, che la sapevano lunga, avevano con il mare un rapporto bipolare: da li’ venivano le richezze, ma più spesso gli invasori. Il mare è contemporaneamente prigione ma anche corridoio verso la libertà.

La Sardegna, per la sua storia, per la sua unicità, per il modo di essere della sua gente, puo’ essere considerata un vero e proprio Continente più che una Regione. Persino il generale La Marmora attraversandola da nord a sud negli anni Venti dell’Ottocento fu costretto ad ammetterlo (è a lui che si deve l’italianizzazione dei toponomi sardi; Voyage en Sardaigne, pubblicato a Parigi nel 1826, scritto in francese!).

Luoghi piuttosto Comuni

E’ impossibile descrivere il carattere dei sardi, bisognerebbe piuttosto parlare dei diversi caratteri dei sardi.

Gli stereotipi più comuni sui sardi sono: i sardi sono orgogliosi, i sardi sono fieri, sono testardi, sono vendicativi, i sardi sono un popolo stanziale…etc, etc, luoghi comuni ai quali sono proprio i sardi i primi a crederci!

La Sardegna è e deve essere, per me, come una grande zattera nel Mediterraneo. Una zattera mobile.

Eppure è percepita da tutti (Sardi e non) come una terra ben radicata, forte, unica, originale per il suo modo di essere del suo popolo che è legatissimo alla propria terra.

Per me questi sono solo clichés. Mi viene in mente un gesuita del Seicento: si chiamava Emmanuele Tesauro che scrisse un opera che s’intitola  Il Cannocchiale Aristotelico, e questo è un ossimoro perché il cannocchiale servi’ proprio per dimostare che aristotele aveva torto (finezze dei gesuiti…). Tesauro scrisse una frase in quest’opera, che secondo me i Sardi dovrebbero scrivere nei loro porti e aereoporti: “Esponevano come trofei le proprie sconfitte”. Questo è. Questo è per me quello che succede in Sardegna. Tutte le cose che vengono comunemente dette sulla Sardegna sono vere, ma anche disperatamente false.

Il problema della Sardegna attuale è che i sardi si sono drammaticamente convinti che sia vera l’immagine che hanno costruito di loro.

Nel senso che noi sardi non ci siamo costruiti un’immagine nostra. In Sardegna questa denuncia attualmente la fanno solo gli scrittori (ecco perché sono cosi’ interessanti in questo momento). Si sono presi in mano un lavoro pazzesco: dare un senso a tutto questo.

Dal mio punto di vista la Sardegna è una zattera mobile, uno di quei posti mobili, non ferma, statica e radicata; nel senso che, per me, le culture sono forti quando non hanno paura di spostarsi. Quando le culture non sono abbastanza mobili, per me, sono deboli; quindi io non aspetto che qualcuno venga in Sardegna,  io faccio in modo di andare verso qualcosa. Questa è la mia idea, questo è il contributo che nel mio piccolo posso dare perché penso di avere più debiti io con la Sardegna di quanto la Sardegna abbia con me. Tutto quello che sono, la mia idea di mondo è grazie alla mia Terra. Pero’ questo non significa che io non veda con chiarezza i terribili diffetti che attraversiamo.

Noi siamo molto meno orgogliosi di quanto voi pensiate. Perché se fossimo davvero orgogliosi non ci troveremo nelle condizioni che ci troviamo attualmente: in Sardegna la disoccupazione è altissima (quasi al 50%, quanti giovani hanno dovuto abbandonare l’isola!) e cosi’ anche la dispersione scolastica (quasi al 60%).  E io credo che non ci sia niente di orgoglioso in tutto questo cioé niente di cui andare orgogliosi. Se questi due numeri non cambiano io non saro’ abbastanza orgogliosa.

Tutto il resto è Folk. Assolutamente solo Folklore.

Badde Lontana

badde

Immagini che fanno male. Le immagini che giungono  dalla Sardegna fanno davvero molto male.

Web, televisioni, giornali on line italiani e francesi non parlano che della tragedia che si è abbattuta sull’isola in poche ore. Ci sono morti, purtroppo, e persone ancora disperse, sfollati, paesi isolati, strade che sono diventate “navigabili”, fiumi esondati, ponti caduti, immagini di catastrofi che si pensa che solo il cinema puo’ darci con i colossal del genere catastrofico. Non sembra reale.

Invece è reale, tutto drammaticamente vero.

Fra le vittime dei bambini.

A loro, a tutte le vittime di questa terribile alluvione e alle loro famiglie dedico questa struggente canzone in sardo, del 1974, che parla del dolore di una madre per la perdita del figlioletto di 18 mesi morto in circostanze tragiche.

(Parigi, 19/11/2013)

La canzone

E’ il 10 di agosto, festa di san Lorenzo, dopo tanto tempo una donna ritorna nella sua valle (San Lorenzo , Osilo). E qui ricorda -potrebbe forse non ricordarlo?- che la valle le ha ucciso il figlio di pochi mesi, schiacciato nella culla da un masso precipitato dal monte.

Sono trascorsi molti anni dalla morte del figlio, ma per la madre è come fosse accaduto il giorno prima. Anzi, nella sua mente, nel suo cuore, la morte del figlio si ripete anche quel giorno, che ritorna nella valle, in occasione della festa. Ancora una volta un masso gigantesco rotola giù dal monte sino a raggiungere la valle, sfonda il tetto e il solaio del mulino e uccide il bimbo mentre dorme nella culla. Così, dentro di lei, l’allegria e il dolore, la fede e la disperazione, si oppongono in un continuo conflitto.

La storia

L’inverno stava per finire quando un grosso masso precipitò dalla collina, rotolando sino a valle e finendo sopra il tetto di un mulino. Dopo aver sfondato il tetto, cadde su una culla dove dormiva un bambino di pochi mesi: Pietro Pisano. Quando giunse la madre, accorsa per il forte boato, il bambino aveva già lasciato questo mondo.

Questa tragica storia, realmente accaduta il 21 marzo 1957 a San Lorenzo (frazione di Osilo), è il motivo ispiratore della canzone Badde lontana.

Antonio Strinna, che l’ha composta nel 1972 insieme con Antonio Costa, è nato proprio in questa valle di mulini, e vi risiedeva al momento della tragedia.

Il fatto è storicamente accaduto quando, lungo la valle, l’attività dei mugnai era ormai in declino. Nella prima metà del ‘900, infatti, San Lorenzo contava una trentina di mulini idraulici e due gualcherie. Negli anni ’50 solo pochi erano ancora attivi.

Pietro Pisanu, il bimbo morto nella culla, sepolto da un masso, è ancora vivo e continuerà a vivere. Una canzone, quando diviene memoria, è capace anche di questi prodigi.

Così, davvero nulla contano ormai i soliti dati anagrafici: San Lorenzo (Osilo), 3 maggio 1956-21 marzo 1957. Rimane, invece, una memoria che gli restituisce tempo e vita, nel cuore delle persone.

Il testo della canzone, in sardo logudorese, è pura poesia.

Badde Lontana (it. Valle Lontana ; Testo in sardo logudorese)

Testo di Antonio Strinna

Musica di Antonio Costa

Sutta su chelu de fizu meu
 como si cantat finza tres dies:
 Badde lontana, badde Larentu
 solu deo piango pensende a tie.

Mortu mi l’hasa chena piedade
 cun d’una rocca furada a Deus:
 Badde lontana, badde Larentu
 comente fatto a ti perdonare?

Zente allegra e bella festa,
 poetes in donzi domo.
 Cherzo cantare, cherzo pregare
 ma non m’ascurtada su coro meu.

Dami sa manu, Santu Larentu,
 deo so gherrende intro a mie.
Dami sa manu, mi so perdende,
 fàghemi isperare umpare a tie.

 

Dal sito:  http://www.antoniostrinna.it/

Traduzione

Valle lontana

Sotto il cielo di mio figlio

adesso si canta per tre giorni:

valle lontana, valle di san Lorenzo,

soltanto io piango pensando a te!

Me l’hai ucciso senza pietà

con una roccia rubata a Dio:

valle lontana,valle di San Lorenzo,

come faccio a perdonarti?

Gente allegra e bella festa,

poeti in ogni casa;

voglio cantare,voglio pregare,

ma il mio cuore non mi ascolta.

Dammi la mano, San Lorenzo,

c’è la guerra dentro di me.

Dammi la mano, mi sto perdendo…

fammi sperare insieme a te.

 

L’addio

fenoglio-beppe

« Scrivo per un’infinità di motivi. Per vocazione, anche per continuare un rapporto che un avvenimento e le convenzioni della vita hanno reso altrimenti impossibile, anche per giustificare i miei sedici anni di studi non coronati da laurea, anche per spirito agonistico, anche per restituirmi sensazioni passate; per un’infinità di ragioni, insomma. Non certo per divertimento. Ci faccio una fatica nera. La più facile delle mie pagine esce spensierata da una decina di penosi rifacimenti ».

E’ questa l’unica dichiarazione che Beppe Fenoglio ci ha lasciato nella sua attività di scrittore, attività svolta in un breve arco di vita. L’opera di Fenoglio ambientata in uno spazio temporale e geografico ristretto – dagli anni 30 del secolo scorso fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale, nella terra d’Alba e delle Langhe – trova il respiro per delineare una storia italiana vera e propria. I suoi racconti formano un’epopea romanzesca e sono la testimonianza di una tensione ideale, di una purezza morale, di una onestà intellettuale di rara esemplarità.

L’addio é uno dei suoi racconti più belli. Il racconto del primo Amore. La poesia del primo perduto Amore.

L’addio

da “Un giorno di fuoco” :

Dopo la terza elementare suo padre lo tolse da scuola, inutilmente il vecchio maestro Alliani venne su fino a Collera per dire a suo padre che era un peccato, che a continuare le scuole quel suo figlio poteva riuscire maestro, o veterinario o speziale. Poteva avere tutto quel pane nelle mani, ma suo padre non poteva dargli il lievito per cominciarlo. Disse al maestro Alliani che sapeva far la firma, scrivere una lettera ai parenti se in casa fosse mancato qualcuno, e per contare, sapeva contare fino a una cifra che non avrebbe mai avuta in soldi. E poi gli disse: “Come volete che lo tenga agli studi, se non posso nemmeno passarvi il caffè a voi che per l’interessamento avete montata una collina, alla vostra età!”.

Suo padre aveva in testa di metterlo subito da servitore su una qualche langa, e dovè ringraziare una pleurite che gli venne nell’autunno se il servizio venne procrastinato. Durante la malattia sua madre fece una pratica per farlo entrare nel seminario di Mondovì, padrone poi lui di prendere la veste o di tornare nella vita con un’istruzione. Ma avevano da offrire troppo poco per venire in qualcosa almeno pari e del seminario non si parlò più. Mentre si aspettava che lui si rimettesse dalla pleurite, faceva le solite cose di quando andava a scuola: tagliar legna, tirar l’acqua al pozzo e soprattutto pascolare.

Pascolare gli piaceva, a differenza degli altri ragazzi che ci pativano tra bestie, erba e nuvole, e passavano il tempo pensando alle mattinate di festa che potevano giocare al pallone ai tetti od alle sere nelle stalle che potevano giocare a carte, con la posta di bottoni, ai pericolosi giochi dei padri. Gli altri ragazzi si chiamavano, da bricco a bricco, con grida selvagge, col solo nome facevano tutto un discorso. Lui, il ragazzo della Collera, non chiamava mai, non sentiva il bisogno di discorrere con nessuno. Il suo stroppo era il più piccolo di tutti, e le pecore erano disciplinate da non richiedere nemmeno una guardata di tanto in tanto, e lui da quando veniva a quando sentiva l’Ave al campanile da Murrazzano pensava e girava gli occhi tutt’intorno. Guardava su a Mombarcaro e giù a San Benedetto, e poi Niella e Bossolasco e la punta del campanile di Serravalle, guardando lungo e profondo nella valle di Belbo, arrivava con gli occhi fin dove per la lontananza le ultime colline non eran più che una nuvola d’incenso in chiesa. E gli faceva effetto pensare che andar da servitore voleva dire anzitutto lasciar questi posti e tutti i giorni se li imprimeva bene negli occhi, era arrivato al punto che chiudeva gli occhi e puntava il dito e riaperti gli occhi il dito era puntato sul campanile del paese fissato per gioco. E c’era sempre un silenzio che lui poteva sentire l’uggiolo del suo cane dalla Collera lontana, legato alla catena trecentosessantacinque giorni all’anno..

A un ragazzo al pascolo non succede mai niente, ma lui non ne soffriva perché proprio mentre era al pascolo si faceva succedere nella testa tutto quel che voleva.

Ma un giorno, successe proprio qualcosa. Per la strada della langa, dritto sul suo prato, vennero un cinque sei ragazze delle cascine tutt’intorno a Murrazzano, che lui conosceva solo di vista. Andavano certo per funghi e portavano arrotolato alla vita il gran grembiale delle loro madri, come per una raccolta mai vista. Lui s’era appiattito sull’erba, come aveva visto spuntar le loro teste per l’erta, ma le ragazze si fermarono proprio sul fosso del suo prato e una gli mandò una voce. Una forza oscura lo teneva contro la terra e per alzarsi fece uno sforzo che anche a lui diede la sensazione di quanto era stato goffo. Venne incontro al fosso, ma non poteva sopportare lo sguardo fisso di quelle cinque ragazze, e pensò bene di girarsi un paio di volte a guardare indietro le sue bestie.

“Tu che sei il ragazzo della Collera” gli fece una di quelle.

“Son proprio io”, disse lui con la voce che gli mancava.

“Tu sei pratico di questi posti più alti dei nostri, dicci dove vengono meglio i funghi”.

Lui parlò, checchezzando, dei boschi sotto Costalunga, e mostrò loro la strada.

Le ragazze accennarono della testa, ma non si muovevano. Forse volevano solo prender fiato dopo l’erta di Monte Berico, ma lui perse la testa e senza fare o dire scappò giù per il suo prato, oltre le bestie, fino in fondo e si intanò nel castagneto. Gli arrivò dietro una sola alta e lunga risata da una di quelle ragazze, e quando lui sentì i loro passi lontanare alzò la testa e tornò sul prato.

Era spaventato e umiliato come se gli fosse capitato qualcosa di vergognoso e che purtroppo non sarebbe finito lì, si rimise giù a sedere col petto premuto da un qualcosa.

Di quelle cinque ragazze lui ne aveva notata, pur col suo sguardo spaventato, una: aveva i capelli biondi e quando girò la testa per seguire il suo dito che segnava Costalunga lui vide che li aveva riuniti dietro in un’unica treccia. Le altre avevano le calze di lana nera, lei invece era a gambe nude, e le sue gambe erano dritte e sottili, quasi senza ginocchio come quelle dei capretti. Ripensandoci, trovò che le aveva preso anche gli occhi, o forse era solo una sua invenzione di dopo, e che erano più profondi e più vecchi di quelli delle altre ragazze. Non doveva mangiare più di quel che mangiava lui.

Cominciò a pensarla, da quello stesso giorno, e tutti i giorni aggiungeva un pezzo alla figura di lei: non poteva pensare più a nient’altro, e questo nuovo motivo gli faceva più ricca e curiosa la vita, lo faceva svegliar più presto e addormentarsi più tardi.

Seppe chi era e il suo nome la domenica dopo: lei era in chiesa e passò poi con le altre alla dottrina. Chiedere gli costò molto, ma il ragazzo di cui si fidò gli disse tutto quel che voleva sapere: si chiamava Nella ed era detta Nella della Mellea perché i suoi avevano in mezzadria la cascina della Mellea, che era la più povera di tutto il territorio di Murrazzano. Ed era sorella di quattro fratelli. Due dei più giovani erano suoi compagni alla dottrina. Ebbene, quei due ragazzi, che prima gli erano lontani come se vivessero dieci colline distante, adesso gli apparivano importanti, perché spartivano con Nella la vita di tutti i giorni e la vedevano fare e la sentivano dire tutto quello che faceva e diceva. Adesso lui si sentiva di difenderli contro Emiliano del Fado, che era il più forte di loro ragazzi, così forte che i vecchi gli pronosticavano un avvenire famoso per sfide e vittorie. Ebbene lui per loro sarebbe andato contro ad Emiliano del Fado che poteva abbatterlo con un dito.

Lungo le settimane lui la pensava tanto che non gli sembrava impossibile che un giorno o l’altro lei gli comparisse davanti, chiamata, portata via da dove stava da quella stessa forza che gliela faceva pensare. Seduto sul prato, gli occhi fissi all’orizzonte ma senza veder niente, aveva la facoltà e la felicità di chiamar Nella e di vederla subito comparire dove lui sceglieva, uscire dal folto del castagneto se lui voleva riceverla immobile, oppure profilarsi sulla strada se lui voleva voltarsi. Nella si muoveva, parlava, stava tutto come voleva lui, con gesti e parole che lui aveva preparato per lei, fatte e dette nella misura e col tono che lui voleva. Diceva lei poche parole, ma davano il via a lunghi discorsi di lui che lei ascoltava in un modo che mai nessun uomo ebbe una ragazza a pendergli dalle labbra così e nessun uomo guardato con occhi più stregati di Nella.

In quel tempo suo padre lo portò con sé alla fiera di Carrù e così lui comprò per Nella un boccettino, spendendoci tutti i suoi dieci soldi, e lo teneva a casa sotto il pagliericcio, aspettando il giorno che avrebbe potuto darglielo e potevano correrci degli anni.

Tutte le domeniche la vedeva alla messa, sempre alla stessa distanza, ma a lui bastava che ci fosse, e vedendola si convinceva che gli bastava, che non avesse il bisogno di parlarle. Solo una cosa gli bruciava di sapere, se era stata lei a ridere quella prima volta dei funghi. Era l’unico suo brutto pensiero, e se ci si fermava sopra allora finiva col dirsi che Nella l’aveva già perduta quel primo giorno.

Venne, a rinforzargli in testa quella disperazione, la festa di San Lorenzo, una festa nella quale egli avrebbe voluto essere sottoterra. Avevano impiantato in piazza i giochi e c’era intorno tutta la gente e ci vide tra i suoi fratelli Nella. C’erano le pignatte e l’albero della salsiccia, e in più un gioco nuovo, quello di prender con la lingua uno scudo d’argento appiccicato al fondo sporco di una casseruola sospesa ad un filo: era sporco di fuliggine e di sterco di gallina. Già alcuni ragazzi ci avevano provato, ma la monetina era sempre là incollata, e quelli se n’erano andati tra la gente che rideva con bestemmie da grandi e sputando e togliendosi lo sporco dalla bocca. Era tremendamente difficile poi, ad ogni leccata la pentola oscillava e tornava in faccia al ragazzo, che l’aspettava inginocchiato su una sedia, come uno che fosse da giustiziare.

Lui si atterrì quando suo padre lo mando a provarcisi. Lui gridò di no. “Perché tu no? Ci si sono provati dei ragazzi che i loro padri possono accecar di soldi il tuo di padre”, disse suo padre. Lui ripetè di no, per Nella, solo per lei, parlava forte mentre suo padre parlava basso perché la gente intorno non sentisse che lui lo sforzava. Lui disse che provava alle pignatte, c’erano dentro salami e uova. Ma suo padre gli disse: “Vai alla moneta, val più lo scudo che tutte le pignatte”. E si mise a gridare per chiedere il passo alla gente, rideva e diceva che suo figlio ce l’avrebbe fatta. Lui passò davanti a Nella, sentendola senza vederla, si inginocchiò davanti alla sedia chiamando dentro sua madre come avrebbe fatto in punto di morte e quando fu pronto dettero l’andi alla pentola. Gli diedero più tempo che agli altri, ma lui per il piangere non vedeva nemmeno la moneta, fuggì rovesciando la sedia, e inghiottendo lo sporco fuggì verso la chiesa. Sentiva dietro di sé la corsa pesante di suo padre e quando fu per essere raggiunto deviò verso il muro della chiesa e ci rimase lì come schiacciato contro da un carro, che piangeva disperato, sporco in faccia e con in bocca quel sapore. Suo padre lo pulì bene col fazzoletto, s’era messo ginocchioni sul selciato per farlo, si guardava in giro e poi gli disse: “Non dirlo a tua madre. Adesso ti porto a casa, ma tu non dirlo a tua madre”.

Ma per lui non contava nulla sua madre, contava la figura con Nella che se aggiunta a quella risata l’aveva persa una volta per tutte.

Ad ogni modo pensava sempre a Nella, e se la sognava persino di notte, ed al mattino se ne ricordava subito e bene, dimodochè passava la giornata con indosso un senso di destino.

Un giorno non potè più star lontano e lasciando le pecore da loro che se i suoi venivano a saperlo l’ammazzavano, calò verso Mellea. Non voleva incontrar Nella, moriva di paura a pensarci, ma voleva veder da vicino il suo tetto e le piante che ci crescevano intorno e sentir l’aria che lei respirava. Ci stette chissà quanto, senza che sentisse un rumore nella casa, o che uno della famiglia uscisse sull’aia. Alzando gli occhi lesse l’ora nel colore dell’aria e spaventato scappò su al suo bricco.

Poi venne a sapere per un discorso che fece a casa suo padre che quel disperato del padre di Nella emigrava in Francia per non crepare a Murazzano di fame e sotto i suoi debiti. Ne aveva parlato all’osteria e aveva già detto quel che avrebbe fatto una volta in Francia, con un po’ di fortuna. Lui avrebbe fatto il vinattiere, i figli da servitori nelle campagne e Nella la filandiera. Aveva venduto tutto il cavià per fare il viaggio.

Lui seppe la mattina che partivano e uscì dal letto e da casa come un topo. Andò a nascondersi dietro una gaggia, prima dell’ultima curva della pedaggera al mare. Aspettò lì e vide poi venir su il carro pieno di masserizie e le persone aggrappate a quelle. Gli passarono davanti e lui vide bene un’ultima volta la treccia unica e il profondo sguardo di lei. Andò dietro per un tratto, avanzando curvo dietro la gaggia. Sul carro erano tutti silenziosi e nessuno si voltava indietro. Prima di voltare nell’ultima curva della pedaggera, il padre fermò il cavallo e disse ai figli: “Figlioli, voltatevi e guardate bene Murazzano perché è l’ultima volta che lo vedete”. Tutti si voltarono in silenzio e lui potè vedere bene Nella. Poi si rivoltarono e l’uomo ridiede al cavallo e se ne andarono. Lui non seguì oltre, perché l’aveva vista bene Nella e poi l’ultima curva della pedaggera era per lui la fine del mondo.

Se ne tornò a casa, così pronto e disposto, adesso, ad andar lontano da servitore.

Lo sguardo di Grazia Deledda: relazione fra Immagini e Scrittura

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« Ho vissuto coi venti, coi boschi, con le montagne. Ho mille volte appoggiato la testa ai tronchi degli alberi, alle pietre, alle rocce per ascoltare la voce delle foglie; ciò che dicevano gli uccelli, ciò che raccontava l’acqua corrente (…) ho ascoltato i canti e le musiche tradizionali e le fiabe e i discorsi del popolo, e così si è formata la mia arte, come una canzone o un motivo che sgorga spontaneo dalle labbra di un poeta primitivo ».

[Grazia Deledda, “La mia Sardegna”]

 Grazia Deledda con grande sensibilità e attenzione ha osservato, interiorizzato e raccontato visivamente scene di vita e personaggi della Sardegna.

Capacità di descrivere e creare con sapiente uso della parola scritta, immagini che colpiscono il lettore e ne sollecitano la sua attività immaginativa, tanto da  autorizzare molti critici a definirla come una “scrittrice visiva”.

L’allenamento alla visione la Deledda lo esercita tutta la vita. Fin da giovanissima fu infatti lettrice assidua di riviste femminili che le fanno scoprire il mondo della Moda delle eleganti signore di città e le illustrazioni che accompaganano gli articoli dell’epoca sollecitano la fantasia della futura scrittrice. Anche la lettura della Bibbia fu per lei un ottimo esercizio alla visione. Nella sua casa di Nuoro ci sono diverse edizioni regalate dallo zio canonico, ricche di suggestive illustrazioni.

Ma è la Pittura sopratutto che forma il suo sguardo. Lo esercita ai valori illuministici e cromatici, a seguire lo sfumare delle tonalità della Natura e l’incredibile varietà dei paesaggi sardi. Tanti gli artisti con cui entra a contatto e ne influenzano l’opera.

Ballero (Antonio Ballero, Nuoro il 16 settembre del 1864-Sassari il 19 gennaio 1932.) con la sua matericità espressa per tocchi di colore, Maestro nel cogliere le vibrazioni della luce che conduce lo sguardo attraverso ritmi cromatici interiori e contemplativi.

Ma sopratutto  Biasi (Giuseppe Biasi, Sassari, 23 ottobre 1885 – Andorno Micca, 20 maggio 1945) che racconta in modo esemplare, con toni favolistici la sua Sardegna alla gente d’oltre mare, a quelli del Continente attraverso i quadri e le immagini che la Deledda stessa sceglie per illustrare le sue novelle sulle riviste.

La Deledda è quindi ben consapevole che la relazione Immagine e Scrittura accresce la suggestione narrativa e stimola l’attività immaginativa del lettore.

Negli ultimi anni della sua vita si dedica alla scrittura di un romanzo autobiografico (Cosima, pubblicato postumo nel 1936) in cui rievoca, attraverso la Memoria, gli anni della sua infanzia e della sua adolescenza a Nuoro, cosi’ densi di ricordi e di immagini. Descrive con grande suggestione la sua casa natale e utilizza espedienti tecnici che favoriscono la visione. Uno di questi, il più diffuso, è quello della finestra.

Nella casa della Delledda c’erano due importanti per lei: una che spazziava gli orizzonti dei Monti dell’Orthobene e dei Monti di Oliena, l’altra invece dava sul viottolo. Ma c’è anche una particolare finestra: quella della sua fantasia.

L’abilità tecnica, quasi cinematografica nel creare l’inquadratura della scena si ritrova nelle varie descrizioni dei paesaggi sardi. Ma è anche Maestra nella descrizione del microcosmo domestico e nello scandagliare i particolari degli interni. Tra essi emerge il motivo riccorrente della cucina. La cucina è il luogo simbolico per antonomasia dove si celebra il rito del racconto.

Vari sono gli affreschi che ci ha lasciato nei suoi romanzi :

« Ma tutto taceva nel lucido tramonto. Anche il vento era cessato e come uno stupore trepido un silenzio di attesa era nell’ aria. La luce azzurra, soffusa del chiarore obliquo del tramonto, pioveva giù dagli alti muri del cortiletto dando ai grandi buoi immobili un riflesso di bronzo ».

(da “Incendio nell’ oliveto ” – 1917).

«Imbrunì: il fuoco dell’ occidente si smorzò in luminosità violacee ; qualche stella appparve come goccia di rugiada sugli estremi rami degli alberi neri. Le montagne ed il mare, ad oriente, svanirono nel sogno cinereo della sera. Era una pace sovrana, eppure da quell’ incipiente mistero dela notte, spirava un senso vago di angoscia. L’ oscura linea del bosco pareva una nuvola e in quella immensità di paesaggio, nel silenzio,nella solitudine , i pastori , la capanna , le bestie , sembravano ancor più piccoli, punti smarriti sotto i profili di sfinge delle rocce enormi chiare all’ ultima luce».

(da ” Il vecchio della montagna ” – 1900)

« Non credo che la felicità esista; credo che esista soltanto la gioia » (Jean-Paul Sartre)

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« –  Tutto questo, beninteso, è finito.
–  Come puoi saperlo ?
–  Lo so. So che non incontrero’ mai più niente né nessuno che m’ispiri della passione.
Lo sai, mettersi ad amare qualcuno, è un’impresa. Bisogna avere un’energia, una generosità, un accecamento… C’è perfino un momento, al principio, in cui bisogna saltare un precipizio: se si riflette non lo si fa. Io so che non salterò mai piú.
–   Perché ?
Lei mi getta uno sguardo ironico e non risponde ».
(Anny, 1948, p. 195)

« Dopo aver viaggiato a lungo, Roquentin si è stabilito a Bouville, tra feroci persone dabbene. Abita vicino alla stazione, in un albergo per commessi viaggiatori e scrive una tesi di storia su un avventuriero del XVIII secolo, il signor de Rollebon. Il lavoro lo porta spesso alla Biblioteca municipale dove il suo amico Autodidatta, un umanista, s’istruisce leggendo i libri in ordine rigorosamente alfabetico. La sera Roquentin va a sedersi a un tavolino del “Ritrovo dei Ferrovieri” ad ascoltare un disco – sempre lo stesso: Some of these days. E, a volte, sale in camera al primo piano con la padrona del bistrot. Da quattro anni Anny, la donna amata, è scomparsa. Pretendeva sempre di aver dei “momenti perfetti” e si sfiniva immancabilmente in sforzi minuziosi e vani per rimettere insieme il mondo intorno a lei. Si sono lasciati; attualmente Roquentin perde goccia a goccia il proprio passato, sprofondando sempre più in uno strano e losco presente. La sua stessa vita non ha più senso: credeva di avere avuto delle belle avventure, ma non ci sono più avventure, ha solo delle “storie”. Si attacca al signor de Rollebon: il morto dovrebbe fornire una giustificazione al vivente.

Allora comincia la sua vera avventura, una metamorfosi insinuante e dolcemente orribile di ogni sensazione; è la Nausea che vi prende a tradimento e vi fa galleggiare in una tiepida palude temporale: è stato Roquentin a cambiare? O è stato il mondo? Mura, giardini e caffè vengono bruscamente assaliti da nausea; altre volte Roquentin si sveglia in una giornata malefica: qualcosa è in putrefazione nell’aria, nella luce, nei gesti della gente. Il signor de Rollebon torna a morire; un morto non può mai giustificare un vivente. Roquentin si trascina a casaccio per le strade, corpulento e ingiustificabile. E poi, il primo giorno di primavera, capisce il senso della sua avventura: la Nausea è l’Esistenza che si svela – e non è bella a vedersi, l’Esistenza. Roquentin conserva ancora un briciolo di speranza: Anny gli ha scritto, la rivedrà. Ma Anny è diventata una cicciona greve e disperata; ha rinunciato ai suoi momenti perfetti, come Roquentin alle Avventure; anche lei, a suo modo, ha scoperto l’Esistenza: non hanno più nulla da dirsi. Roquentin torna alla solitudine, sprofondando nell’enorme Natura accasciata sulla città e di cui prevede i prossimi cataclismi. Che fare? chiamare in aiuto altri uomini? Ma gli altri uomini sono gente dabbene: si scambiano gran scappellate e ignorano d’esistere. Lui deve abbandonare un’ultima volta Some of these Days e, mentre il disco gira, intravede una possibilità, un’esile possibilità di accettarsi. »

(Soffietto per la prima edizione de La Nausée, redatto da Jean-Paul Sarte, p. 4-5)

Jean-Paul Sarte, La Nausea, Einaudi, 1990

Le pillole di sagezza di N.

Mele

N. è l’uomo più mite che conosca. Fa le pulizie dove lavoro. E’ arrivato in Francia che aveva 18 anni, mi racconta, al seguito di un Maharaja, padrone e datore di lavoro suo e di tutta la sua famiglia. E’ arrivato a Parigi nel lontano 1978.
N. viene dall’India. Non dimostra i suoi 53 anni, compiuti  lo scorso settembre. Il suo francese è stentato e parla con un accento fortissimo. E’ orgoglioso dei suoi figli nati in Francia che fanno con profitto studi universitari.
Conosce tutti a lavoro e tutti lo conoscono. Sempre un sorriso e una parola gentile per tutti. Quando arrivo la mattina, nel mio bureau trovo sempre una mela che N. immancabilmente mi fa trovare:
– Lavori troppo. Devi mangiare – mi dice paterno.
– Non hai nostalgia, non hai voglia di tornare? La tua di Patria è lontana… – chiedo.
– La Patria è dove c’è il lavoro – mi dice. Questo è un Paese strano eppure – aggiunge –  c’è possiblità per tutti, anche per gli stranieri. E’ importante che in un Paese ci sia lo sguardo degli stranieri.

Imperturbabile, zen, N. è conosciuto per essere un uomo semplice e saggio. La sua filosofia è dettata da una empatia e una sensibilità fuori dal comune.
Una delle sue pillole di sagezza mi è remasta impressa.
La sua filosofia è semplice: bisogna sorridere alla vita e ringraziare per le cose che ci offre e mai lasciarsi abbattere.
«Aspettare che accada l’impossibile consuma la nostra capacità di amare e la nostra disponibilità, ma anche l’autostima e la sicurezza in noi stessi.
Anche considerare qualcuno un nemico ci ferisce profondamente.
Allontanarci dal nostro cuore ci fa male e questo è  proprio quello che succede quando lo chiudiamo nei confronti di qualcuno.
L’unico modo per essere liberi di andare avanti con la nostra vita è provare gratitudine per cio’ che abbiamo e anche per quello che le persone ci hanno dato (anche quelle che ci hanno ferito) o perlomeno mettere a fuoco le sue qualità positive, anziché insistere su quelle negative. E questo non è affatto facile per la mente e per il nostro  l’ego che preferisce di gran lunga continuare ad accusare e criticare. Ma non è difficile per il cuore. Il cuore ha la capacità di vedere cio’ che è positivo, anche in qualcuno che la nostra mente definisce un vero mostro. Questo grazie al fatto che il cuore non ha confronti e non possiede ideali, non ha sogni né speranze : vede semplicemente la realtà del presente senza giudicare. Il giudizio è una qualità della mente non del cuore, perché nasce dal confronto. Visto che il cuore non si lascia coinvolgere nelle storie che la mente insiste a riproporre, puo’ vedere con maggiore chiarezza, puo’ vedere che quella persona ha agito inconsapevolmente e, per motivi suoi inconsci, non è stata in grado di darti quello che volevi da lei.
A differenza della mente il cuore non lo prende come un fatto personale. Capisce che quella persona ha i suoi problemi,la sua vulnerabilità e i suoi limiti e che tutte queste cose la portano a comportarsi cosi’ E che questo non ha nulla a che fare con te: il comportamento di quella persona nasconde le sue ferite, le sue paure, i suoi bisogni.Grazie a questa comprensione nasce la Compassione e con la Compassione puoi finalmente lasciar andare quella persona e trovare la pace. Ci vuole un immenso coraggio per passare dalla mente al cuore e vedere le cose da questa prospettiva, ma se sei stanco di sentire quei muri intorno al tuo cuore, se vuoi davvero permettere al tuo cuore di riprendere a fluire liberamente vale la pena di provarci ».

Il fascino autunnale del Louvre

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