Passaggio in Sardegna di Massimo Onofri

Passaggio in Sadegna

Esistono luoghi che evocano e la Sardegna è una terra che evoca.
La Sardegna è stata una terra molto raccontata: più raccontata che visitata. Nel passato è stata visitata molte volte e da sguardi potenti culturalmente e che hanno lasciato traccia. Sergio Atzeni diceva”Passavamo sulla terra leggeri“. Sulla Sardegna son passati tutti e leggero nessuno. Noi abbiamo impronte di ogni tipo, ognuno ha lasciato la propria impronta che ci ha conformato, deformato, dato forma, con tutto quello che significa nel bene e nel male, per cui è ormai molto difficile oggi che la comunità sarda si immagini fuori da questi sguardi.
L’atto di scrivere una “guida” della Sardegna, narrare un luogo cosi narrato da penne potenti come Valery (Voyages en Corse, à l’île d’Elbe et en Sardaigne, 1834), Balzac (che sbarca nel 1838), D.H. Lawrence (Mare e Sardegna,1921) è un atto di coraggio grandissimo, Bravo Massimo Onofri! Perché è un atto politico fortissimo! E perché sopratutto, strano ma vero: i primi a descrivere e raccontare la Sardegna Non sono stati gli italiani, ma i francesi e gli inglesi. E ci hanno raccontato come hanno voluto, partendo dalle loro città evolute, ci avete trattato come indigeni, come il vostro oriente esotico sotto casa…

Il libro di Massimo Onofri, viterbese di nascita ma sardo nel cuore, permette di capire che ci sono itinerari che ci legano gli uni agli altri, perché quegli itinerari consentono  a me che sto a Parigi di arrivare a  Massimo, di arrivare a Paola, di arrivare a Rita e a tutti i personaggi veri citati e narrati nel libro. Ma sopratutto di arrivare ai sardi in generale. Eppoi è chiaro che serve a arrivare a chi della Sardegna conosce poco e vuole visitarla ma con uno spirito autenticamente di incontro.

Esistono dei sardi per i quali andarsene era l’unico modo di restare. Quanti migranti abbiamo fuori dalla Sardegna…che continuano a vivere nell’isola che hanno lasciato che piano piano negli anni ha cominciato a assomigliare all’isola desidarata che non è mai stata e mai sarà. E ogni volta il ritorno è uno strappo, perché non è mai la casa che ti aspetti di tornare, l’Itaca che sognavi non è quella che trovi ad aspettarti; per cui c’è una sorta di malinconia in questo andare e venire, che è “ferita”, perché la Sardegna è tutta una ferita. La sardegna ha un confine che si vede. Ci sono regioni i cui confini non si vedono, lo si possono vedere solo nella mappa geografica, hanno un confine convenzionale, deciso dagli uomini. La Sardegna no: ha un orlo strappato su tutta la sua linea e con questo confine/ferita deve fare continuamente i conti. I sardi nascono con un muscolo più allenato perché hanno il mare davanti e anche quando non lo traversano mai, convivono tutta la vita con l’idea di poterlo attraversare, come un muscolo pronto al salto, che fa di te un migrante anche quando non ti sposti. E questa è, io credo, una delle caratteristica più importante dell’accoglienza in Sardegna: quando viene qualcuno, viene accolto dentro questa ferita, dentro questo desiderio di andare e tornare continuo che non ha mai pace come una specie di pnda che va e viene sempre sulla stessa battigia. c’è una usanza in Barbagia che si chiama istranzadura. Istranzu significa in sardo sia straniero/forestiero che ospite, le due parole sono identiche, cioé la parola è la stessa per indicare i due concetti. Significa che allo straniero non si puo’ applicare la xenofobia, perché nel momento incui è straniero è contemporaneamente anche ospite, per te è obbligante applicarli un’accoglienza.
C’è molta bellezza nel nostro presente. C’è molta bellezza nella Sardegna, c’è molta bellezza un questo libro.

E’ una cultura antica quella sarda e estremamente variegata: non esiste una “cultura sarda “standard”, esiste una confederazione di regni individuali con molte culture che si incontrano e si incrociano. Questa enorme complessità spesso è sconosciuta agli stessi sardi perché la movibilità interna nell’isola è sempre stata molto poca, dovuta anche a una rete viaria parecchio fragile. A postarsi erano i pastori perché avevano necessità di trovare il cibo per il bestiame, a spostarsi erano i commercianti chr dovevano venere la loro mercanzia, la frutta sopratutto. Ma la stragrande maggioranza delle persone legate ad una economia di territorio (i contadini per es.) si spostava pochissimo. Questo fa si che spesso i sardi sono sconosciuti a se stessi e quindi molto esposti al rischio di diventare come dice lo scrittore Marcello Fois (qui va citato) “turisti di se stessi”. Questo fatto che c’è poca mobilità interna e che c’è stata per anni, la si sta superandosolo adesso, perché ci spostiamo tutti con molta più facilità, e ci permette di superare molti pregiudizi che tutti abbiamo gli uni verso gli altri e ci da sopratutto un po’ degli anticorpi per non essere appunto dei turisti di noi stessi. Ma nello stesso tempo il mondo non è stato fermo: tutto si evolve.

Massimo Onofri, Passaggio in Sardegna, Giunti Editore, 2015

I misteriosi Giganti di Mont’e Prama e 5 buoni motivi per visitare la Sardegna

i giganti di Mont'e Prama    Statue di Mont'e Prama

I giganti di Mont’e Prama potrebbero riscrivere la storia. Per Storia non si intende solo la storia sarda. Si intende la storia del Mediterraneo, dell’Europa, insomma, la storia occidentale.
Negli anni ’70 si inizia a scavare nel sito di Mont’e Prama. Emergono centinaia di reperti che vengono conservati negli scantinati del Museo Archeologico Nazionale di Cagliari per 40 anni. Una scoperta sensazionale, tenuta nascosta, nonostante le urla nel silenzio di alcuni volenterosi studiosi. Statue gigantesche, in pietra, precedenti di parecchi secoli le prime a tutto tondo del Mediterraneo.

Navicella nuragica   gioielli nuragici

La civiltà nuragica, una civiltà che è durata quasi due millenni e che, ancora oggi, caso unico al mondo, dopo 3000 anni, caratterizza il paesaggio sardo con oltre 8000 nuraghi e altre migliaia di monumenti, fino a rendere la Sardegna, verosimilmente, la regione del mondo con la più alta concentrazione di monumenti preistorici. Che quella nuragica è stata una civiltà che ha rappresentato un passaggio fondamentale, un tassello mancante nella costruzione della storia, non occorre essere degli specialisti di stratigrafia archeologica per capirlo.
E’ una conseguenza della logica, del buon senso, e anche dell’onestà intellettuale e morale.

La Sardegna antica si pone come ponte di unione tra il megalitismo occidentale atlantico e gli influssi che, dall’Oriente, attraverso il mare Egeo, raggiungevano quella che per l’epoca era la parte più remota e misteriosa del Mediterraneo. Questo incontro di influssi così diversi ha reso l’isola, a partire dal secondo millennio AC, uno straordinario laboratorio culturale.

Mont'e Prama   ossidiana

Alla Sardegna è difficile togliere autenticità. I suoi monumenti e i suoi paesaggi hanno un grande fascino, e conoscerli, amarli e rispettarli, arricchisce ognuno di noi.
E’ paradossale il fatto che frotte di turisti vengano in Sardegna per vedere le coste (che, del resto, sono sublimi), ma non si rendono conto che qui c’è:
1 – archeologicamente, una sorta di Stonhenge moltiplicata per 10.000 (domus de janas, pozzi sacri, tombe dei giganti, villaggi nuragici, necropoli, dolmen, menhir…);
2 – antropologicamente, un popolo con una lingua e una cultura legata a tradizioni antichissime;
3 – artisticamente, una cretività originalissima;
4 – gastronomicamente, una cucina sana, pura, diversa e gustosa;
5 – naturalisticamente, una ricchezza di ambienti e di paesaggi che vanno dalle grotte, alle “Giare”, altipiani con gli ultimi cavalli selvaggi d’Europa, fino alle montagne del Gennargentu e ai boschi di sugherete…. La Sardegna è, insomma, un’autentica bomba di ricchezza turistica ancora da esplodere.

Foto: visita al Museo Civico di Cabras che ospita i Giganti di Mont’e Prama  il 03/05/2015

Nuraghi in Israele

Shardana

Nel 1992 l’archeologo Adam Zertal ha scoperto in Israele, nei pressi della città di Haifa, il sito archeologico di El-Ahwat: un villaggio fortificato esteso per circa tre ettari, protetto da mura dello spessore di sei sette metri e caratterizzato dalla presenza di strutture in pietra che possiedono numerose analogie con le torri nuragiche. In seguito agli scavi effettuati, all’analisi dei reperti rinvenuti, alle testimonianze tramandateci dagli egizi e dai testi sacri, Zertal avrebbe tratto la conclusione che El-Ahwat fosse un villaggio costruito dai guerrieri Shardana provenienti dalla Sardegna, poiché architetture simili, all’epoca, si trovavano solo sull’isola. Ma lo studioso, che colloca il complesso in un periodo compreso tra la tarda Età del bronzo la prima Età del ferro, non si limita soltanto ad attribuire la paternità della cittadella di El-Ahwat agli Shardana-nuragici; con la sua teoria si spinge ben oltre: essi, infatti, in quanto mercenari al servizio dei Faraoni dell’AnticoEgitto, sarebbero giunti in Israele con il compito di controllare quella zona strategica per conto del faraone. All’interno della cinta muraria l’archeologo avrebbe individuato anche la residenza del capo, identificato in Sisara, un personaggio biblico che condusse numerose guerre in Terra Santa, seminando il terrore tra i popoli che vi abitavano. Secondo i testi sacri il condottiero “sardo” fu ucciso, durante la battaglia di Meghiddo, da Giaele, una donna a lui molto vicina che scelse di tradirlo proprio nel giorno di quella storica disfatta. L’ipotesi dell’archeologo israeliano ha scatenato in Sardegna un dibattito acceso: alcuni studiosi locali l’hanno accolta con molto scetticismo, altri la sposano quasi completamente e altri ancora ne condividono solo una parte. Le domande, in ogni caso, sono molte. Come mai, per esempio, le strutture di El-Ahwat si presentano più simili a dei protonuraghi piuttosto che alle costruzioni edificate in Sardegna nello stesso periodo? Probabilmente perché, rispondono i sostenitori della tesi di Zertal, il villaggio è stato realizzato in poco tempo, quindi le architetture risultano molto meno elaborate. Inoltre i massi utilizzati, e reperiti inevitabilmente nella zona, erano di dimensioni assai modeste rispetto a quelli di cui disponevano in nuragici in “patria”. Insomma, la materia è bollente e magmatica. La questione fa discutere e farà discutere ancora per lungo tempo.

 “Per vie completamente diverse e senza sapere delle ricerche uno dell’altro circa due anni fa abbiamo scoperto di essere giunti alle stesse conclusioni. Cioe’ che gli antichi sardi sono in effetti i “popoli del mare”, o meglio i Shardana, una popolazione di guerrieri citata dai geroglifici egiziani del periodo faraonico di cui si sa tuttora molto poco”, spiega Zertal.  Si e’ svolta una approfondita campagna di scavi a El – Ahwat con la partecipazione di una quarantina di archeologi e studenti sardi e in seguito è stato organizzato un convegno ad Haifa per esporre i risultati. Titolo dell’incontro: “I legami tra Mediterraneo occidentale ed orientale alla fine dell’eta’ del bronzo e l’inizio di quella del ferro”. Sembrerebbe il classico simposio tra specialisti su di un tema ultra – specifico. Ma lo guida una tesi estremamente interessante anche per i non addetti ai lavori: quello sardo e’ un raro caso di civilta’ preromana che non si espande dall’est verso ovest, bensi’ in senso opposto. Zertal parla di “rivoluzione copernicana della cultura nuragica”. A detta di Ugas si tratta di un fenomeno “estremamente atipico per quel periodo, destinato a rafforzare l’ipotesi delle origini antichissime e autoctone della civilizzazione sarda”. Dunque gli architetti dei nuraghi non avrebbero copiato da nessuno. La loro cultura si sarebbe invece sviluppata in modo indipendente sull’isola sin dal neolitico e l’eta’ del rame, nel 6.000 a. C., per poi espandersi verso le coste orientali del Mediterraneo. “Troviamo esempi di terracotta nuragica in Sicilia, Creta, lungo il Peloponneso, a Micene e in Anatolia. Ma questo in Israele e’ probabilmente il sito piu’ ricco e meglio preservato”, ha detto Ugas.    E’ interessare da ultimo osservare che, secondo Adam Zertal, il capo degli antichi Shardana fosse Sisara, generale alle dipendenze del re cananeo Labino, che dopo la disfatta subita a Meghiddo venne ucciso a tradimento da una donna chiamata Jaele. Dunque Sisara, era davvero sardo-shardana? «Su questo tra studiosi siamo d’accordo. Lo era sicuramente».

L’archeologo israeliano ha in effetti identificato le rovine di El Ahwat con la biblica Haroset Goim, sede di una guarnigione shardana comandata dallo stesso Sisara. A onor di cronaca bisogna pero’ ricordare che già nel 2005 ne aveva già parlato l’archeologo Leonardo Melis nel suo libro: “Shardana i principi di Dan”.

Curiosità: La più antica menzione del popolo chiamato Šrdn/Srdn-w, più comunemente detto Shardana o Sherden, si trova nelle lettere di Amarna, corrispondenze fra Rib-Hadda di Biblo e il faraone Akenaton, ascrivibili al 1350 a.C. In questo periodo appaiono già come pirati e mercenari disposti ad offrire i loro servigi ai ricchi signori locali.

El-Ahwat

Fonti:

http://www.redstate.com/diary/Jeff_Emanuel/2012/03/03/sardinians-in-central-israel-the-excavator-of-el-ahwat-makes-his-final-case/

http://scholar.harvard.edu/emanuel/f-zertal-el-ahwat_jaei-5-2

http://archiviostorico.corriere.it/1997/dicembre/11/gli_antichi_sardi_costruirono_nuraghi_co_0_97121114384.shtml

http://www.nurnet.it/it/1456/Nuraghi_in_terra_d’Israele.html

Dante in Sardegna ci fu o non ci fu?

Ma Dante in Sardegna ci fu o non ci fu?

Cando in Gaddura ghjudici e rignanti
cumandani illi pàttimi di Baldu
si dici che venisi ancora Danti
a lu casteddu di Santu Ninaldu
pa’ pudéssi ammintà illi so’ canti 
cant’era malu lu populu saldu
e a lu caldu assignallu senza smarru
di li tunghi scurosi di lu ‘nferru

[Quando in Gallura giudici e regnanti
comandavano nelle piane del Baldo
si dice che venne anche Dante
al castello di San Leonardo
per poter ricordare nei suoi canti
la cattiveria del popolo sardo,
e al fuoco assegnarlo senza errore,
nelle profonde voragini dell’inferno]

Questa ottava fu ricostruita qualche anno fa andandola a ripescare dalle sabbie mobili della memoria. Faceva parte di una lunga Canzona che, circa quarant’anni prima canticchiava in sordina, seduto accanto al camino acceso, ziu Franciscantoni Matrica, un mendicante che trascorreva in Gallura le feste di Natale, quando l’inverno era rigido e cancellava le strade.

Di questa presenza di Dante in Sardegna trattano alcuni libri: già nel suo saggio del 1895, Ricordi danteschi in Sardegna Tommaso Casini diceva che forse c’era stato, ma che non c’erano documenti. Dopo una attenta analisi dei fatti storici che interessano la Sardegna giudicale dal 1240 al 1300 Casini si chiede se Dante sia mai venuto in Sardegna. E poi in seguito, nel 1921 in un libro di Pantaleo Ledda intitolato Dante e la Sardegna. 

Scrive Casini: “La Storia, la geografia, la lingua, i costumi, gli uomini, i fatti della Sardegna nel tempo di Dante sono rispecchiati nelle opere di lui con tanta precisione e abbandanza di informazioni che, al confronto del silenzio di tutti i suoi contemporanei,  inducono a un senso di meraviglia; si che non dovrebbe poi parere troppo ardita ipotesi che il poeta, da giovane, quando a cio’ poteva essergli occasione l’amicizia sua con il giudice Nino gentile, o nella più matura età, quando fuoriuscito dalla Patria godette della ospitale cortesia dei Malaspina (i quali appunto in quegli anni ebbero frequenti occasioni di recarsi nell’isola), facesse anch’egli, come tanti altri del suo tempo, il viaggio di Sardegna”.

«La Sardegna non è mai stata isolata, sempre è stata nel fiume della grande storia». Ne è sicuro Federico Francioni, una vita trascorsa dietro la cattedra a insegnare lettere e filosofia, nonché pre­sidente della Consulta interco­munale per la promozione e la valorizzazione della lingua, della storia e della cultura della Sardegna, autore di un bel saggio: “Dante e la Sardegna, invito a una nuova lettura” (Edizioni Condaghes).

A Dante fu molto cara l’amicizia del giudice Ugolino Visconti, detto Nino di Gallura, tanto da collocarlo, nella sua Commedia nell’antipurgatorio e dichiararsi felice di trovarlo destinato alla salvezza eterna:

Ver’ me si fece, e io ver’ lui mi fei;
giudice Nin gentil, quanto mi piacque 
quando ti vidi non esser tra’  rei !
  
Nullo bel salutar tra noi si tacque;

(Purg. VIII, vv.  52-55)

Del resto il giudice di Gallura gli aveva anche procurato l’amicizia degli Scornigiani, famiglia pisana devota ai Visconti, che avevano avuto sempre qualche loro rappresentante in Sardegna (uno Scornigiani, infatti, fu giudice del Castello di Castro dal 1230 al 1234).  Dante puo’ aver visitato l’isola con uno di loro o con Tolosato degli Uberti, suo concittadino e amico, il quale intorno al 1297 fu manadato dal Comune di Pisa in Sardegna per difendereil giudicato d’Arbora da una temuta invasione aragonese che poi non avenne. Più tardi Tolosato degli Uberti, tornato nella penisola, fu uno dei capi dei Ghibellini ai quali si unirono Dante e gli altri fuoriusciti di parte bianca.

O forse il Poeta senti’ parlare della Sardegna dai Visconti, dagli Scornigiani, e dagli Uberti, tanto da avere una cosi’ buona conoscenza da poterla ricordare nella Commedia. In ogni caso il Poeta la Sardegna la conosceva bene. I suoi versi documentano le idee che circolavano in Italia sulla storia politica della Sardegna; documentano inoltre, essendo scomparse importanti cronache locali, l’agonia del Giudicato di Gallura a causa del malgoverno di frate Gomita  e del Giudicato di Torres per il malgoverno di Michele Zanche di Logodoro.  Frate Gomita, uomo di fiducia del Giudice Nino, profittando delle assenze  del suo signore, liberò alcuni importanti prigionieri mediante esborso di una bella somma  barattier non picciol, ma sovrano. Nino rientrò in Sardegna e lo fece impiccare.

Michele Zanche fu governatore  del Giudicato di Torres per conto di re Enzo (figlio naturale di Federico II di Svevia). Successivamente, morto il re, usurpò il regno alla sua vedova Adelasia di Torres.  (Inf. XXII-  79- 90), la consuocera del conte Ugolino della Gherardesca. Fu assassinato a tradimento nel 1275 dal genero Branca Doria che, “per usurpare il Giudicato di Logudoro al suocero usurpatore, lo invitò a mangiare seco a un suo castello e ivi finalmente  fe’ tagliare a pezzi lui e tutta  la sua compagnia” (Anonimo fiorentino). (Inf. XXXIII – 136-147).
Troviamo Frate Gomita e Michele Zanche nella quinta bolgia  dei barattieri, immersi nella pece bollente e in continua gara di furbizia con i diavoli.

Ed ei rispuose: «Fu frate Gomita,
quel di Gallura, vasel d’ogne froda,
ch’ebbe i nemici di suo donno in mano,
e fé sì lor, che ciascun se ne loda.
Danar si tolse, e lasciolli di piano,
sì com’e’ dice; e ne li altri offici anche
barattier fu non picciol, ma sovrano.
Usa con esso donno Michel Zanche
di Logodoro;e a dir di Sardigna
le lingue lor non si sentono stanche […]».

(Inferno, XXII, vv. 81-90).

Giudicati sardi

 […] a dir di Sardigna le lingue lor non si sentono stanche […]

Quel “dir di Sardigna” tra Michele Zanche e Frate Gomita vorrebbe dimostrare che, ieri come oggi, i sardi danno importanza alla loro terra e ne parlano anche quando qualcuno li condanna (fisicamente o metaforicamente) alle pene dell’Inferno, costringendoli a restarne lontani. E poi il fatto che, pur nella bollente pece eterna “a dir di Sardigna le lingue lor non si sentono stanche”,  fa ancora più piacere perché vuol dire che l’odierna intesa che esiste, anche per merito della poesia, tra il gallurese, il logudorese e le altre parlate sarde non è un fatto nuovo. In altre parole, se un gallurese e un logudorese morti e sepolti in terra prima e nella pece dell’inferno poi, riescono a intendersi parlando di una patria comune, perché non dovrebbero intendersi fra loro, oggi da vivi, tutti i sardi anche di diverse zone dell’isola?

Per tornare alla domanda iniziale, ma Dante in Sardegna ci fu o non ci fu? Manlio Brigaglia e Dionigi Scanu dicono di no. Dicono che nessun grande signore ha potuto ospitare il Poeta in Sardegna, per il semplice fatto che non c’è mai venuto: anche se – chiarisce Brigaglia – nei versi di Dante restano segni e immagini fortemente connotativi dell’isola: come l’abitudine dei sardi a parlare fra loro sopratutto (anzi, quasi esclusivamente) di Sardegna, e l’appellativo dantesco donno (in sardo logudorese il titolo donnu veniva dato ai giudici, piccoli re dei giudicati, a vescovi, abati e principi, ma poi anche a secolari, come “padroni” e personaggi importanti). Dante usa donno per Michele Zanche e Nino di Gallura.

Anche il poeta Angelo Mundula è d’accordo con Brigaglia e Scanu, dice che se Dante ci fosse stato, anche in un solo verso, lo avrebbe detto: “a starci bene attenti, nella Divina Commedia c’è disseminata, apparentemente a caso, la sua biografia. […] Se Dante fosse arrivato in terra sarda ce lo avrebbe fatto sapere: anche perché andare in Sardegna, a quel tempo, anche se si trattava di un luogo relativamente vicino alla penisola, era sempre un’avventura degna di nota”.

Fonti:
Franco Fresi, La Sardegna dei Misteri, Newton Compton Editori, 2013.

Video:  Dante e la Sardegna- personaggi danteschi e luoghi dell’isola tra passato e presente. Regia: Vittorio Sanna

http://www.fondazionesardinia.eu/ita/?page_id=6233

A Settembre ho letto: “Viaggio in Sardegna” di Michela Murgia

Viaggio in Sardegna

“Che un sardo scriva una guida per la Sardegna non ha valore per chi viene in Sardegna e basta. Ha valore per chi ci è nato. Perché un conto è andare a visitare “la cartolina”, ma dieci volte peggio è nascerci nella “cartolina”, e vivere dentro lo stereotipo di sé stessi, dentro l’idea di tipico che gli altri si aspettano che interpreti e incarni”.
(Michela Murgia)

Ho letto viaggio in Sardegna di Michela Murgia anni fa (il libro è stato pubblicato da Einaudi nel 2008) e lo rileggo sempre con piacere.

Questo libro non è una guida sulla Sardegna ma un invito a visitarla con occhi diversi. E’ un invito più ad entrare in una storia, in un racconto che ad andare in quel luogo. C’è anche sottinteso che se tu entri in quel luogo, ma non entri in contatto con la sua narrazione, stai visitando un non-luogo e, in realtà, non stai entrando in relazione con nulla che c’è nel luogo stesso, anche se magari porterai a casa decine e decine di cartoline di paesaggi, di sapori e di ricordi che senz’altro rendono il tuo viaggio molto bello, pero’ faranno di te un turista, non un viaggiatore.

Il genere narrativo è un incrocio che da un lato rimanda al genere letterario dei racconti di viaggio della tradizione (genere che risale già dal V secolo, pensiamo a Erodoto o Strabone) dall’altro alle nostre guide turistiche.

All’inizio del libro ci sono due cartine, due mappe: una con le regioni e sub-regioni storiche della Sardegna, l’altra è la cartina attuale più diffusa, che, come dice bene la Murgia: “le due geografie non concidono quasi mai“. Poi abbiamo tutte le indicazioni utili che vanno dai luoghi di interesse, ai festival, oasi, parchi, e in mezzo abbiamo undici percorsi, undici itinerari di “un’isola che non si vede”.

Regioni storche della Sardegna

L’autrice traccia le rotte per undici possibili viaggi in Sardegna, smentendo o reinterpretando sia le aspettative fondate sui luoghi comuni legati all’Isola, sia le suggestioni e i resoconti di tanti osservatori, per lo più stranieri, che della Sardegna hanno reso testimonianza. Ma anche mettendo in discussione alcuni punti di riferimento culturali assurti al rango di dogmi (Emilio Lussu e il suo sardismo), o smontando la messinscena folkloristica di certa “sardità prèt-à-porter“, di certe trovate agri-turistiche finto-genuine (come ad esempio il capitolo del “pranzo con i pastori”) o il capitolo sul matriarcato e Femminilità, o ancora quello sulla Musica, il Cibo, la Storia.

Pagina Viaggio in Sardegna

La Narrazione come luogo di incontro

Dice la Murgia; “La Sardegna è un posto molto narrato. Più narrato che visitato”. Questo è verissimo. E continua: “La Sardegna è uno stereotipo narrativo da sempre, da quando nasce il genere di “guida” di viaggio, di racconto di viaggio. La Sardegna è stata visitata da grandi penne del passato: da Valery a Balzac, da D.H. Lawrence a Elio Vittorini. Ciascuno di loro ha scritto un proprio diario di viaggio (“Viaggio in Sardegna”, “Mare e Sardegna”,” Sardegna come un’infanzia”). Era un periodo un cui un po’ colonialmente c’era l’idea di andare a visitare altre culture e impossessarsi della loro anima, attraverso un meccanismo diaristico, per poi riportarne ai compatrioti il senso “esotico” del viaggio in quelle terre. Il risultato è una serie di libri che parlano di tutto fuorché della Sardegna, ma che contribuiscono a formare quell’immaginario che di fatto resterà sia per chi non c’è mai stato ma anche per ci va. Di esempi di questo tipo ne abbiamo tantissimi: pensiamo ai luoghi che non esistono nella realtà ma che noi abbiamo da sempre nel nostro immaginario (esempi illustri: Dante con la descrizione dell’Inferno o del Paradiso, eppure Dante non c’è mai stato; o l’immaginario che per secoli noi occidentali abbiamo avuto della Cina grazie ai Viaggi descritti da Marco Polo). La verità narrativa dei luoghi supera la forza dei luoghi stessi, per cui, quando tu ti rechi in un luogo cosi’ raccontato, in una cartolina cosi’ definita, il rischio è non-vedere-oltre, e anche che sia difficile tornare a casa con qualcosa di più di quando sei partito: che il velo ti sia strappato. Ci sono posti che evocano. La Sardegna esiste nei racconti fatti da altri”.

Il messaggio del libro di Michela Murgia è che la cosa più interessante da visitare in Sardegna sono i sardi. “Entrare nella loro cultura, sorprenderti , vedere e incontrare cose nuove e esperienze diverse e unicheI  In una parola: aprire nuove porte. Se non si vuole vedere oltre quelle porte, vedrai solo “la cartolina” e avrai  le tutte le quinte teatrali che desideri trovare. Perché bisogna volerlo, bisogna saperle aprire quelle porte, avere nuovi occhi, una sensibilità particolare: cosi facendo ti sorprenderai e non costringerai chi ti accoglie ad “assomigliare a te” anzicché essere Tu a scoprire loro“. E questo concetto vale per tutti i luoghi: sardi, italiani, europei, del Mondo.

Il libro è un tentativo di smontare un pregiudizio o un auto-pregiudizio. La leggerezza della scrittura rende agevoli anche temi difficili. L’ironia, a volte sottesa, tradisce lo sguardo disincantato di chi non si fa ingannare dall’amore per la propria terra.

Michela Murgia, Viaggio in Sardegna. Undici percorsi nell’isola che non si vede, Einaudi 2008 pp. 198.

Cuore e Vento

Parole d’amore. Non per una donna, ma per una terra. La Sardegna.

“Si arrende anche la luna alla bellezza
Il mare la sua splendida corazza
Conserva la sua storia nella terra
Concede un ballo solo a chi sa amarla

Montèras donant a su mare
S’olòre de sa murta in frore
No apo coro e bentu
Chena istìma né carignos suos

Non tutti sanno che le stelle brillano
Per tutti ma non brillano per me
Perché anche il cielo l’ha capito subito
Che non può farci niente se
Non vedo luce se non sto con… te…

Più forte dell’estate e dell’inverno
Ti preferisco in abiti d’autunno
E si deo penso a tie che isposa mia
Vorrei tu fossi sempre primavera

Montagna che regala il mare
L’odore dei suoi mirti in fiore
Cuore e vento non ho
Se non dormo nel suo abbraccio

Niùne l’ischet chi sas neulas dansant
Chin cada amina foras che a mie
Perché anche il cielo l’ha capito subito…
Che non può farci niente se non vedo luce se non sto con te…

Duo ogros che arresordzas lughente
Sos tuos, mirant a mie e nois
Pitzìnnos atrassìdos tue e …deo

Non vedo luce se non sto con te”

Cuore e vento (il testo del brano è stato scritto dal cantante dei Modà Francesco Silvestre in collaborazione con i Tazenda)

Ad agosto ho letto: Anonimo Piemontese, “Descrizione dell’isola di Sardegna” (1759)

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Col trattato di Utrecht del 1713, che concludeva la Guerra di Successione Spagnola, il Duca di Savoia Vittorio Amedeo II ottenevl’assegnazione della Sicilia, mentre tutti gli altri possedimenti italiani della corona di Spagna, e anche la Sardegna, passavano agli Asburgd’Austria. Dopo pochi anni, però, dovette cedere la Sicilia all’Austria, in cambio della Sardegna. Era il 1720, anno del trattato di Londra, ratificato all’Aia.  Dunque, dopo la Guerra di Successione spagnola (che fu una sorta di guerra mondiale dell’epoca), la corona del Regno di Sardegna (prima facente parte della Corona imperiale iberica) era stata ceduta ai Savoia (al duca Vittorio Amedeo II), casualmente ritrovatisi dalla parte giusta del conflitto (dopo un opportuno cambiamento di alleanze). Era l’esaudimento di un desiderio a lungo coltivato: il titolo monarchico. Unico inconveniente, oltre al titolo c’era da prendersi anche la Sardegna, cosa di cui i Savoia non mancheranno di lamentarsi a lungo: ancora nel 1859 Cavour provò a vendere l’isola alla Francia (a Napoleone III durante le guerre d’Indipendenza), in cambio del consenso a un’espansione territoriale sul continente.

[E’ importante una piccola digressione: il Regnum Sardiniae venne istituito nel 1297 dal Papa Bonifacio VIII, che lo assegnò a Giacomo II d’Aragona. Era un titolo nominale; all’epoca la Sardegna era indipendente e esistevano nell’isola 4 regni sovrani,  i Giudicati. L’effettiva presa di possesso dell’isola da parte degli Aragonesi venne iniziata nel 1323 con la spedizione dell’infante Alfonso. In quel momento gli Aragonesi accettarono di dividere il territorio dell’isola con i Giudici di Arborea, loro temporanei alleati, ma alla fine del XIV secolo l’alleanza si ruppe ed esplose lo scontro fra l’istituzione autoctona ed il regno iberico. Nel 1409, con la sconfitta degli Arborea nella battaglia di Sanluri, il controllo aragonese si estese a tutta la Sardegna. La Sardegna, associata alla Corona di Aragona, con l’unificazione dei regni iberici (ossia al matrimonio fra Isabelladi Castiglia e Ferdinando di Aragona, del 1469), entrò a far parte della Corona di Spagna. Il “Regno di Sardegna” mantenne, comunque, una sua identità istituzionale. Il sovrano era rappresentato da un Viceré residente a Cagliari].

Il primo problema che il governo sabaudo dovette affrontare fu quello della conservazione del possesso dell’isola; possesso che – d’altro canto – non era considerato, dalla corte sabauddefinitivo. Ancora per lungo tempo i Savoia pensarono di poter fare dell’isola un oggetto di scambio per acquisizioni territoriali più interessanti e più adatte alla loro tradizione ed alla collocazionegeografica dei loro domini (per anni cercarono di scambiarla con la Toscana). L’altro problema era quello di guadagnare il consenso dell’aristocrazia locale, di cui ampi settori erano ancora legati ai vecchi dominatori spagnoli, superandone ostilità e diffidenze. I Savoia nei primi trent’anni del loro dominio cercarono di non modificare la situazione isolana, anche perché era vietato dagli accordinternazionali; assunsero il titolo di “Re di Sardegna” e conservarono nell’isola la presenza di un Viceré, i  cui poteri, però, diminuirono rispetto all’epoca spagnola divenendo solo un intermediario di ordini che provenivano da Torino.

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Questa premessa è importante per far capire quale è il contesto storico in cui l’opera è stata scritta, cioè nei primi decenni che seguirono il passaggio dell’Isola alla dominazione sabauda.

Il testo, di grandissimo valore storico, fa rivivere  l’atmosfera della Sardegna del ‘700 vista attraverso gli occhi di uno sconosciuto, l’Anonimo Piemontese.
Non sappiamo chi fu l’autore del testo, non conosciamo il suo nome, sappiamo soltanto che fu un militare piemontese che soggiorno’ in Sardegna “per quattro anni e più mesi” a metà del Settecento. L’autore è stato denominato genericamente “Anonimo Piemontese” dal colui che ha curato questo pamphlet, Francesco Manconi: è a lui infatti che si deve la scoperta e la pubblicazione solo nel 1985 di questo manoscritto autografo che risale al 1759. “L’Anonimo fu uno dei tanti esponenti di quel nutrito manipolo di funzionari amministativi, militari, ecclesiastici, intellettuali che a vario titolo si impegnarono a svelare una terra come la Sardegna del tutto ignota ai loro governanti”, scrive Francesco Manconi nella prefazione, c’è insomma “Il bisogno di conoscere più a fondo la Sardegna”.

L’opera è una sorta di baedeker ante litteram, ossia una guida sommaria ma ricca di informazioni inedite sulla Sardegna ad uso anche degli amici piemontesi dell’anonimo ufficiale. Il grado di informazione dei piemontesi sulla Sardegna era infatti assai limitato, ma bisogna dire che la disinformazione era diffusa anche fra i sardi (cosa che si puo’ riscontrare anche ai giorni nostri ahimé!), vittime storiche della cantonalità e della scarsa autocoscienza regionale. Nell’ “Avvertimento” che precede lo scritto l’autore dice che la sua memoria dovrebbe servire ai suoi amici piemontesi, nel caso di un loro viaggio in Sardegna; ma potrebbe servire anche agli stessi sardi “i quali poco sono informati del Paese loro, e che le poche informazioni che ne danno sono false, o perché ignorano il vero, o per aver viste Particolari” (p.35).

Insomma un’opera straordinaria, per molti versi,  per la ricchezza di informazioni di prima mano e per la vastità delle materie trattate. Tuttavia la “Descrizione” del 1759 non riserva alcuna attenzione (forse per limiti culturali dell’autore, o forse perché l’anonimo militare piemontese non ha probabilmente occasione di visitare compiutamente l’Isola) a certi fenomeni sociali.

Una delle cose di cui si sorprende il nostro osservatore venuto dal Piemonte è la sua sorpresa che in Sardegna (ma sopratutto a Cagliari) si faccia largo uso del tomate (il pomodoro, che come sappiamo è giunto dalle Americhe), un alimento a lui sconosciuto. Questa singolarità alimentare della presenza della tradizione iberica negli usi alimentari dei Sardi – e anche se si vuole – della cantonalità culturale del Piemonte che, dopo due secoli e mezzo, sembra ancora ignorare, almeno parzialmente, la rivoluzione alimentare determinata dalla scoperta dell’America.

Il manoscritto settecentesco “Descrizione dell’Isola di Sardegna” è appartenuto al marchese Enrico Sanjust di Teulada (che fu sindaco di Cagliari dal 1876 al 1882).
L’opera è conservata oggi nell’ Archivio Storico di Cagliari, essa è un esempio di quel costume diffuso fra i nobili e i dotti dell’epoca di conservare nelle proprie biblioteche non solo edizioni stampate ma anche di opere scritte a mano. Era un costume culturale importato in Sardegna dalla Spagna fra il Cinquecento e il Seicento.

A rendere originale l’opera contribuisce l’onestà dell’autore nel trattare la questione della reciproca difficoltà di intendersi tra sardi e piemontesi. La diffidenza e la paura dell’altro non viene, infatti,  più imputata all’insularità e all’avarizia di notizie dei sardi, ma anche e sopratutto all’insensibilità e al disinteresse dei piemontesi nel voler comprendere l’Isola.

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Anonimo Piemontese, “Descrizione dell’isola di Sardegna”, a cura di Francesco Manconi, Ilisso Edizioni, 2013, 247 pp.

Grazie luglio…

Cala Gonone

Uomo libero, tu amerai sempre il mare!
Il mare è il tuo specchio; contempli la tua anima
Nello svolgersi infinito della sua onda,
E il tuo spirito non è un abisso meno amaro.

 Homme libre, toujours tu chériras la mer! 
La mer est ton miroir; tu contemples ton âme 
Dans le déroulement infini de sa lame, 
Et ton esprit n’est pas un gouffre moins amer.
Charles Baudelaire, 1857

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Foto: Cala Gonone, Sardegna (13/07/2014 – 30/07/2014)

A Giugno ho letto: “Nel tempo di mezzo” di Marcello Fois

Fois Nel tempo di mezzo

E’ il 1943 quando il giovane Vincenzo Chironi, circondato da una massa di profughi in disperata fuga dalla guerra e dai bombardamenti alleati, sbarca su quella remota zattera persa in mezzo al mare che è la Sardegna. Per lui l’isola è una realtà totalmente sconosciuta. Cresciuto come orfano in un collegio triestino, scopre di essere figlio di un giovane militare sardo, morto da eroe tra le trincee della Prima Guerra Mondiale, e di una giovane contadina friulana. Totalmente disabituato a considerarsi componente di una famiglia, non sa cosa aspettarsi dai suoi parenti sconosciuti.

Vincenzo Chironi è un uomo che non dovrebbe neppure esistere, per anni figlio di nessuno, torna in una terra che invece sembra esistere da sempre e li’ ricomincia a vivere, diventa se stesso.

Il suo è un viaggio di ritorno, è la storia di un’appartenenza che si vuole ritovare. Il viaggio è verso Nuoro, la città d’origine del padre che non ha mai conosciuto. Ci vuole molto tempo prima che lui sia veramente pronto e convinto di partire per riprendersi qualcosa che gli era stato tolto e lo farà quando decide che è abbastanza forte per farlo: ecco perché io scarto l’ipotesi (letta in tante recensioni) per la quale Vincenzo torni in Sardegna per recuperare le proprie origini. Lui arriva in Sardegna con un’identità ben precisa e formata: è un friulano sotto tutti i punti di vista.

Arriva in una Sardegna che non ha conosciuto la Seconda Guerra Mondiale cosi’come altri parti d’Italia (nel Nord c’era stata la guerra partigiana), Vincenzo trova invece un universo completamente diverso. In quegli anni l’isola vive altre piaghe terribili, tristemente famose, come la malaria o la lotta alle cavallette. La malaria era diffusa sostanzialmente nelle zone costiere, le tre zone malariche endemiche in Italia erano: la Bassa ferrarese, tutta la zona della Baronia (cosi’ si chiama in Sardegna l’ampia zona del golfo di Orosei) e la zona di Pula in Sardegna, tutta la parte dell’Agro Pontino romano e un pezzo del siracusano in Sicilia. Le cavallette invece furono una piaga indotta, cioé furono portate dai bastimenti che tornavano dalle guerre in Africa e colpirono tutto il sud Italia fino quasi ad arrivare al centro; in Sardegna tutto il Sud dell’isola, il Campidano e devastavano letteralmente i campi (nel 1946 devastarono interi raccolti in Calabria, in Sicilia tutta la zona di Gela, tutto il Salentino nelle Puglie). Le grandi battaglie che le popolazioni dell’epoca dovevano fronteggiare erano queste.

L’ostinazione del vivere e del sopravivere, questo Vincenzo lo impara nella sua nuova terra, e in un certo senso lo insegna, perché la sofferenza come la felicità non sono mai atti gratuiti, costano sempre qualcosa. E sopratutto vanno insegnati.

«Se vorrai diventare parte di questa terra, imparerai cosa significa strazio… È la maledizione e la benedizione delle isole: sempre andare e sempre tornare… con strazio», questo gli insegna un prete incontrato all’inizio della sua storia, e questa mi sembra essere la parola chiave del romanzo: strazio. Legarsi alle persone e ai luoghi è una benedizione, ma poi ci si separa o ci si ferisce, e questo strazio è il prezzo da pagare per quella benedizione.

Nel Tempo di mezzo

Lo “strazio” è una condizione di strappo perenne continuo che ti accompagna, è una precisa connotazione delle Isole. Lo è solo per l’isulare perché  la sua percezione  di spazio cambia: il viaggio per lui è uno “sradicamento” perenne. Ora è diverso, certo, ma non dobbiamo dimenticare che c’è stata una generazione di sardi (quelli della generazione di Vincenzo, per esempio) per i quali lo spostamento era diverso: era una necessità, non è che viaggiassero per turismo. Viaggiavano per concorsi, viaggiavano per raggiungere ospedali, viaggiavano per andare a lavorare altrove, si viaggiava nei traghetti e rimanevi 12/13 ore in quei posti, ed era una condizione stranissima perché avevi quel tempo per abbandonare quello che eri stato e lentamente diventare qualche altra cosa quando sbarcavi.

Nel tempo di mezzo porta avanti la trilogia inaugurata da Fois nel 2009 con Stirpe, ma è anche un romanzo che, da solo, costituisce un universo narrativo perfettamente indipendente.

 

La Brigata Sassari e il mito identitario

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Guardo in televisione la tradizionale parata militare del 2 giugno, festa della Repubblica. Un’emozione vedere sfilare la celebre Brigata Sassari e il suo ormai “incontournable” inno. Un’emozione di esistere, di esserci, di contare. Tuttavia, tuttavia, resta anche il retrogusto di questo sentimento: il racconto che ne viene continuamente fatto della Brigata Sassari come mito dell’ identità sarda. Si’, perché quel racconto è una radiografia che mosta il nostro scheletro: su quelle ossa, infatti, si è sviluppata la carne della nostra, specifica, retorica.

Emilio Lussu ci insegna che l’esperienza della Brigata Sassari determino’ il primo momento di totale coesione tra i sardi: “per la prima volta, la gioventù sarda si trovava insieme, in una formazione sarda”. Qualunque sardo in obbligo di leva veniva reclutato nella Brigata. Fu proprio questa Brigata, la prima a riscattare l’esercito italiano dopo la disatrosa sconfitta di Caporetto, durante la Prima Guerra Mondiale. La Brigata divenne quindi famosa, celebrata a livello nazionale e persino venerata in Sardegna. Si racconta che gli austriaci temevano particolarmente questi questi piccoli nemici rapidi e abili a muoversi nei territori impervi e li avevano battezzati  die roten Teufel (i diavoli rossi), da cui deriverebbe il loro celebre appellativo di Dimonios. La Brigata Sassari, dunque, un’istituzione divenuta rapidamente mitica e destinata ad essere rappresentata come l’immagine simbolica della stessa Sardegna, la sua espressione in armi.

Scrive Omar Onnis:
“Toccare la Brigata Sassari è come insultare la mamma di qualcuno. Si sfida la sensibilità emotiva delle persone, la loro sfera affettiva. Si rischia il linciaggio politico e morale. La Brigata Sassari è uno dei pilastri portanti del nostro mito identitario. Tutto nasce dall’intuizione maligna dei comandi italiani all’inizio della Prima guerra mondiale, la Grande Guerra, il macello che sconvolse l’Europa e una buona parte dell’orbe terracqueo come mai prima. I comandi italiani erano reazionari, ottusi e imbevuti di razzismo almeno quanto chi li nominava (il re e il governo), ma non ci misero molto a rendersi conto che questa strana razza delinquente ma pittoresca che erano i sardi, se adeguatamente motivata e guidata, poteva rivelarsi uno strumento bellico molto efficace.
I sardi, messi insieme, risultavano legati da un singolare spirito di corpo, che suscitava emulazione, gesti di coraggio (che noi altri chiameremmo balentìa), orgoglio testardo, strenua resistenza. Certo, la minaccia di essere fucilati nella schiena in caso di renitenza o diserzione aveva il suo peso. Però evidentemente qualcosa scattava nell’animo di quei giovani pastori, contadini, figli della piccola borghesia, quando si ritrovavano in trincea, a parlarsi in sardo, a constatare la propria diversità rispetto al resto della truppa. Ed anche la necessità di sopravvivere ad un incubo insensato come la guerra, e quella guerra in particolare, dovette avere il suo ruolo. Tutti i campanilismi, le differenze a lungo percepite come incolmabili tra un villaggio e quello confinante, gli odi atavici, perdevano improvvisamente peso davanti alla necessità di sostenersi a vicenda sia nella vita, sia nella morte.
L’esito paradossale di questa operazione, di suo cinica e razzista quant’altre mai, fu che i sardi al fronte si sacrificarono sì più degli altri (13 su 100 non ritornarono a casa, contro una media italiana di 10 su 100), ma anziché maturare per questo il senso della propria appartenenza all’Italia, si convinsero invece che si stavano sacrificando per la Sardegna. Non per una Sardegna piegata e subalterna, ma per una Sardegna più libera e più forte. Così, mentre i bollettini di guerra e la propaganda governativa esaltavano le virtù dei sardi “eroici combattenti” e insignivano i due reggimenti sardi di medaglie d’oro e menzioni speciali, quelli cominciavano a pensare se stessi diversamente e proiettavano la propria immaginazione in un dopo, in un futuro post bellico, che sarebbe dovuto essere diverso e migliore per sé e per la propria gente.
Perché quella guerra fu la guerra della Sardegna al fronte. Su 800000 abitanti ne vennero richiamati sotto le armi 100000. Un ottavo della popolazione. Della popolazione, non degli uomini abili! Un uomo su quattro, compresi vecchi e bambini, partì in guerra, lasciando la propria occupazione, la propria famiglia, il proprio villaggio, sottraendo alla comunità braccia, forze e presenza. L’assenza prolungata e ancor più il mancato ritorno di un soldato corrispondevano alla miseria di un’intera famiglia, spesso.
Costruire una retorica di appartenenza su una tale tragedia ha di suo qualcosa di malato. I reduci dal conflitto sapevano bene quale porcheria esso fosse stato. La narrazione eroica sulla Brigata Sassari nasce dopo, nasce dalla necessità di compensare con dosi tossiche di orgoglio la costrizione ad integrarsi in un ambito a cui ci si sentiva estranei. Orgoglio e integrazione sono due elementi indispensabili nella costruzione dell’identità sarda “regionale” e “autonomista”, che trovano nella Brigata Sassari e nel suo mito tecnicizzato un punto di incontro e di sintesi. Senza il quale le argomentazioni a favore della necessità che i sardi debbano sacrificarsi per l’Italia, per poterne ricevere il sostegno e la tutela, non reggerebbero molto.

Pensiamoci, quando salutiamo commossi i “nostri ragazzi” che, armi in pugno, partono per qualche scenario di guerra in nome degli interessi italiani. E pensiamoci quando qualcuno di loro torna indietro dentro una bara”.

Fonti:
Emilio Lussu, Il cinghiale del diavolo, Ilisso, 2008 p.56
Omar Onnis, Tutto quello che sai sulla Sardegna è falso, Arkadia, 2013 pp. 38-39

Tutto quello che sai sulla Sardegna è falso

Tutto quello che sai sulla Sardegna è falso

Incipit : “I sardi non si conoscono, non sanno chi siano, non sanno ubicarsi nel tempo e nello spazio. Questo curioso fenomeno antropologico ha cause complesse e stratificate, ma possiamo riassumerle tutte nel quadro dell’egemonia culturale che ha conformato il nostro immaginario collettivo e i nostri processi di identificazione da duecento anni a questa parte, e negli ultimi cento in particolare.
In tale sistema simbolico, mitico e mediatico, i sardi sono identificati – da essi stessi e anche dagli altri – come una popolazione marginale, estranea al flusso principale della storia, non produttrice di civiltà essa stessa, bensì portatrice di una cultura conservativa subalterna e tributaria verso la vera civiltà, che è sempre passata per l’isola arrivando dal mare e alla quale i sardi hanno per lo più resistito. La nostra storia non ha valore in sè, ma in quanto caso specifico in un contesto più ampio che ha la penisola italiana come suo centro fisico-geografico, politico e culturale. Non rappresentiamo un patrimonio storico nostro, bensì solo un valore relativo, commisurato a un termine di paragone più grande, più importante, più vero.
Gli esiti di questo processo articolato e prolungato nel tempo sono evidenti per esempio nei manuali storici adottati nelle scuole italiane (e quindi anche in quelle sarde). Un’assenza sistematica della Sardegna, interrotta in rari casi da notizie fantasiose o, quando va bene, tendenziose e/o parziali.
Nella poca storia che ci riguarda abbondano romani, bizantini, vandali (questi ultimi un pò meno, in verità), ma poi è un trionfo di pisani e genovesi, aragonesi e spagnoli e poi finalmente c’è il “ritorno” nell’alveo della civiltà italiana (con i Savoia) e la nostra definitiva e più giusta collocazione tra le regioni italiane.
In sostanza, questo è il quadro delle conoscenze storiche sulla Sardegna e sui sardi. Ed è precisamente “questo” che studiano anche i sardi. I mass media principali fondano le proprie notizie su “questo” modello narrativo. Dunque “questo” è ciò che sappiamo noi e sanno gli altri su di noi”. (Premessa, p. 11)

Tutto quel che i Sardi sanno sulla Sardegna é falso – scrive Michela Murgia nella Prefazione – perché è dentro un gioco di specchi dove il compito di raccontarlo è stato da tempo ceduto ad altri con la piena e colpevole collaborazione de soggetti narrati. (…)

L’autore decostruisce con umorismo e sopratutto con valide argomentazioni un’etichetta piena di parole a volte contraddittorie, a volte sbagliate, altre volte semplicemente scritte da altra gente, luoghi comuni, bugie e miti collettivi che fondano l’identità dei sardi. Un’interessante nemesi storico-geografica, un  libro irriverente sugli stereotipi sardeschi molti dei quali di conio sabaudo.

Omar Onnis è uno storico nuorese che guardando la Sardegna da lontano (vive a Trento) la ripensa, la rilegge e ne scrive sul suo blog Sardegnamondo. Molte delle sue riflessioni puntano a smontare con puntiglio, leggerezza e serietà molte delle troppe generalizzazioni che noi stessi sardi accettiamo per vere e diffondiamo sul nostro conto. L’ordine è alfabetico – dalla A di Acabadora alla Z di Zone interne – e il criterio è innanzitutto politico.

Prendiamo la M di Matriarcato. Come ricorda correttamente Onnis, questa parola “significa qualcosa di abbastanza preciso, ossia un dominio di genere strutturato e istituzionalizzato (in forme rituali, in forme simboliche e anche in forme giuridiche) a favore delle donne. Non si può onestamente sostenere che esista il matriarcato in Sardegna ed è da dimostrare che sia mai esistito». Di sicuro però come idea funziona , nel senso che in tanti trovano seducente l’ipotesi che dentro ogni sarda regni una matriarca. Una scorciatoia per non misurarsi con le disparità di genere? Una formuletta consolatoria per non porsi concretamente il problema del “soffitto di vetro” che nella stragrande maggioranza dei casi ferma l’ascesa delle donne prima che raggiungano vette accessibili agli uomini? Forse: di sicuro è più confortevole e confortante ripeterci che siamo l’isola di Eleonora piuttosto che contare le donne che occupano posizioni chiave nella politica, nell’impresa, nelle professioni (eppure si farebbe in fretta). Ma al tempo stesso è un modo di pensare che in realtà sminuisce l’effettiva emancipazione delle donne sarde rispetto a molte realtà peninsulari”.

Vi invito a leggerlo, vi farà diveritire e forse , come afferma Michela Murgia, vi disorienterete davanti a certe decostruzioni di cose date ormai per verificate davanti all’ennesimo pregiudizio sui sardi orgogliosi, marginali, poveri, combattenti, ospitali, fedeli, o matriarcali”.

 Omar Onnis, Tutto quello che sai sulla Sardegna è falso, Arkadia Editore, 14€

 

“La Sardegna è diversa” (luoghi piuttosto comuni da sfatare)

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Immagine: Alluvione in Sardegna dal sito http://www.ilgiornaledellaprotezionecivile.it  (giovedi 21 Novembre 2013)

Tutte le terre sono imprigionate nei luoghi comuni. Ma la Sardegna, forse, più di altre rimanda ad immagini sterotipate. Da una parte le ville sulla Costa Smeralda dall’altra un entroterra che rimanda a un mondo arcaico e alla pastorizia. In questo articolo sulla mia terra d’origine, intendo percorrere sentieri nuovi per abbattere le convenzione di una terra troppo spesso vittima della sua stessa epica.

Se do un ritratto invernale della Barbagia, dove il clima alpino, il freddo secco, la neve sono le caratteristiche principali, sembrano elementi di un quadro esotico. Eppure, dentro a quelle montagne abita la sostanza di un territorio molto folklorizzato ma ancora sconosciuto nella sostanza. È proprio l’inverno che dà alla Barbagia quella profondità di territorio vivo, che differenzia il viaggiatore dal vacanziere. Perché come l’estate sostanzia il mare, l’inverno sostanzia i monti.

Quando mi chiedono qui in Francia da quale parte dell’Italia arrivo e dico Sardegna, mi sento rispondere: “l’ile? C’est l’Italie aussi?” (l’isola? E’ anche li’ Italia?). Oppure: “ah c’est trop cher aller la bas! ( è caro andare in Sardegna, è un posto esclusivo, da ricchi, d’élite, etc…).

Eh si’,  perché spesso, molto spesso parlare di Sardegna è solo sinonimo di coste, mare, Costa Smeralda, vacanze.

Quasi inutili le mie proteste per dire “ la Sardegna non è solo quello!”.

E’ difficile pensare a un’operazione di marketing di maggior successo come quella che da più di 30 anni ha come imprigionato la Sardegna nell’immaginario collettivo di milioni di italiani (e non) alla bellezza delle sue Coste. Il Nord-est dell’isola, la costa Smeralda, il glamour che Porto Cervo e Porto Rotondo garantiscono ogni estate , sono posti addirittura consacrati a tempio di chi puo’ e di chi vorrebbe magari, ma si deve accontentare di guardare da lontano.

Eppure agli occhi di un sardo poche cose sono più lontane dalla sua percezione della sua Terra delle dorate spiagge galluresi: “La Sardegna è un’altra cosa” , direbbe. Infatti noi sardi quando ci chiedono com’è la Sardegna diciamo: “La Sardegna è diversa”. E in effetti noi la sentiamo  diversa in 2 modi. Il primo è che la sentiamo diversa dal resto del Mondo, vicino o lontano che sia: per noi Civitavecchia o Roma sono diverse quanto New York o Parigi, per dire. Il secondo è una diversità che forse il visitatore coglie meno o perlomeno capisce meno immediatamente cioé che esistono diverse Sardegne, per cui ognuno di noi ha come sua propria appartenenza, oltre all’appartenenza all’isola, non tanto la città o al paese dove abita, quanto la regione: la Gallura, la Barbagia, il Logudoro, il Campidano, l’Ogliastra…regioni che hanno una storia diversa, avvenimenti diversi, conquiste di passaggi diversi, cibi diversi e addirittura le lingue diverse. La Costa Smeralda è per certi versi un paradiso artificiale, troppo assimilato al gusto italiano, se non addirittura internazionale, per appartenere più soltanto all’isola. Infatti c’è un’altra Sardegna e l’altra Sardegna è la Alghero catalana, la Cagliari aragonese, il Campidano degli agricoltori, la Barbagia dei pastori, il Sulcis delle miniere, le montagne del Gennargentu, il “deserto” di Piscinas: paesaggi, storie e tradizioni spesso contrastanti, talvolta contaddittori. Questi sono i tanti volti che per i Sardi è la vera realtà.

Comunque ci si arrivi, in nave o in aereo, in Sardegna ci si arriva dal mare, visto che la Sardegna è per grandezza la seconda isola italiana e di tutte la più lontana. Ma per raccontarla bisogna partire proprio da qui: dal mare. I quasi 2000 Km di costa rappresentano oltre un quinto di tutte le coste italiane, ma del loro meraviglioso mare i sardi per secoli non hanno mai apprezzato la bellezza: ne hanno sempre e solo avuto paura. “Dal mare sono sempre arrivati solo guai, non ultimi, dice ironicamente qualcuno, i turisti”. Anche questi sono stereotipi ormai aquisiti e ripetuti come un mantra: “dal mare sono arrivati i dominatori: prima Cartaginesi e Romani, poi Bizantini, Pisani, Genovesi, gli Spagnoli, i Piemontesi e la sua storia intima non si comprende se non si decifrano le ragioni della paura che ne hanno esasperato il naturale isolamento”. E anche:”dal mare ci si doveva diffendere, per questo da millenni la popolazione si è progressivamente ritirata e concentrata nell’Interno”.

“In Sardegna, la Barbagia è una Sardegna – dice lo scrittore nuorese Marcello Fois – una delle tante”. Poche cose uniscono i sardi in senso di popolo, una di queste è senza dubbio il mare che li circonda. E i padri, che la sapevano lunga, avevano con il mare un rapporto bipolare: da li’ venivano le richezze, ma più spesso gli invasori. Il mare è contemporaneamente prigione ma anche corridoio verso la libertà.

La Sardegna, per la sua storia, per la sua unicità, per il modo di essere della sua gente, puo’ essere considerata un vero e proprio Continente più che una Regione. Persino il generale La Marmora attraversandola da nord a sud negli anni Venti dell’Ottocento fu costretto ad ammetterlo (è a lui che si deve l’italianizzazione dei toponomi sardi; Voyage en Sardaigne, pubblicato a Parigi nel 1826, scritto in francese!).

Luoghi piuttosto Comuni

E’ impossibile descrivere il carattere dei sardi, bisognerebbe piuttosto parlare dei diversi caratteri dei sardi.

Gli stereotipi più comuni sui sardi sono: i sardi sono orgogliosi, i sardi sono fieri, sono testardi, sono vendicativi, i sardi sono un popolo stanziale…etc, etc, luoghi comuni ai quali sono proprio i sardi i primi a crederci!

La Sardegna è e deve essere, per me, come una grande zattera nel Mediterraneo. Una zattera mobile.

Eppure è percepita da tutti (Sardi e non) come una terra ben radicata, forte, unica, originale per il suo modo di essere del suo popolo che è legatissimo alla propria terra.

Per me questi sono solo clichés. Mi viene in mente un gesuita del Seicento: si chiamava Emmanuele Tesauro che scrisse un opera che s’intitola  Il Cannocchiale Aristotelico, e questo è un ossimoro perché il cannocchiale servi’ proprio per dimostare che aristotele aveva torto (finezze dei gesuiti…). Tesauro scrisse una frase in quest’opera, che secondo me i Sardi dovrebbero scrivere nei loro porti e aereoporti: “Esponevano come trofei le proprie sconfitte”. Questo è. Questo è per me quello che succede in Sardegna. Tutte le cose che vengono comunemente dette sulla Sardegna sono vere, ma anche disperatamente false.

Il problema della Sardegna attuale è che i sardi si sono drammaticamente convinti che sia vera l’immagine che hanno costruito di loro.

Nel senso che noi sardi non ci siamo costruiti un’immagine nostra. In Sardegna questa denuncia attualmente la fanno solo gli scrittori (ecco perché sono cosi’ interessanti in questo momento). Si sono presi in mano un lavoro pazzesco: dare un senso a tutto questo.

Dal mio punto di vista la Sardegna è una zattera mobile, uno di quei posti mobili, non ferma, statica e radicata; nel senso che, per me, le culture sono forti quando non hanno paura di spostarsi. Quando le culture non sono abbastanza mobili, per me, sono deboli; quindi io non aspetto che qualcuno venga in Sardegna,  io faccio in modo di andare verso qualcosa. Questa è la mia idea, questo è il contributo che nel mio piccolo posso dare perché penso di avere più debiti io con la Sardegna di quanto la Sardegna abbia con me. Tutto quello che sono, la mia idea di mondo è grazie alla mia Terra. Pero’ questo non significa che io non veda con chiarezza i terribili diffetti che attraversiamo.

Noi siamo molto meno orgogliosi di quanto voi pensiate. Perché se fossimo davvero orgogliosi non ci troveremo nelle condizioni che ci troviamo attualmente: in Sardegna la disoccupazione è altissima (quasi al 50%, quanti giovani hanno dovuto abbandonare l’isola!) e cosi’ anche la dispersione scolastica (quasi al 60%).  E io credo che non ci sia niente di orgoglioso in tutto questo cioé niente di cui andare orgogliosi. Se questi due numeri non cambiano io non saro’ abbastanza orgogliosa.

Tutto il resto è Folk. Assolutamente solo Folklore.