La Brigata Sassari e il mito identitario

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Guardo in televisione la tradizionale parata militare del 2 giugno, festa della Repubblica. Un’emozione vedere sfilare la celebre Brigata Sassari e il suo ormai “incontournable” inno. Un’emozione di esistere, di esserci, di contare. Tuttavia, tuttavia, resta anche il retrogusto di questo sentimento: il racconto che ne viene continuamente fatto della Brigata Sassari come mito dell’ identità sarda. Si’, perché quel racconto è una radiografia che mosta il nostro scheletro: su quelle ossa, infatti, si è sviluppata la carne della nostra, specifica, retorica.

Emilio Lussu ci insegna che l’esperienza della Brigata Sassari determino’ il primo momento di totale coesione tra i sardi: “per la prima volta, la gioventù sarda si trovava insieme, in una formazione sarda”. Qualunque sardo in obbligo di leva veniva reclutato nella Brigata. Fu proprio questa Brigata, la prima a riscattare l’esercito italiano dopo la disatrosa sconfitta di Caporetto, durante la Prima Guerra Mondiale. La Brigata divenne quindi famosa, celebrata a livello nazionale e persino venerata in Sardegna. Si racconta che gli austriaci temevano particolarmente questi questi piccoli nemici rapidi e abili a muoversi nei territori impervi e li avevano battezzati  die roten Teufel (i diavoli rossi), da cui deriverebbe il loro celebre appellativo di Dimonios. La Brigata Sassari, dunque, un’istituzione divenuta rapidamente mitica e destinata ad essere rappresentata come l’immagine simbolica della stessa Sardegna, la sua espressione in armi.

Scrive Omar Onnis:
“Toccare la Brigata Sassari è come insultare la mamma di qualcuno. Si sfida la sensibilità emotiva delle persone, la loro sfera affettiva. Si rischia il linciaggio politico e morale. La Brigata Sassari è uno dei pilastri portanti del nostro mito identitario. Tutto nasce dall’intuizione maligna dei comandi italiani all’inizio della Prima guerra mondiale, la Grande Guerra, il macello che sconvolse l’Europa e una buona parte dell’orbe terracqueo come mai prima. I comandi italiani erano reazionari, ottusi e imbevuti di razzismo almeno quanto chi li nominava (il re e il governo), ma non ci misero molto a rendersi conto che questa strana razza delinquente ma pittoresca che erano i sardi, se adeguatamente motivata e guidata, poteva rivelarsi uno strumento bellico molto efficace.
I sardi, messi insieme, risultavano legati da un singolare spirito di corpo, che suscitava emulazione, gesti di coraggio (che noi altri chiameremmo balentìa), orgoglio testardo, strenua resistenza. Certo, la minaccia di essere fucilati nella schiena in caso di renitenza o diserzione aveva il suo peso. Però evidentemente qualcosa scattava nell’animo di quei giovani pastori, contadini, figli della piccola borghesia, quando si ritrovavano in trincea, a parlarsi in sardo, a constatare la propria diversità rispetto al resto della truppa. Ed anche la necessità di sopravvivere ad un incubo insensato come la guerra, e quella guerra in particolare, dovette avere il suo ruolo. Tutti i campanilismi, le differenze a lungo percepite come incolmabili tra un villaggio e quello confinante, gli odi atavici, perdevano improvvisamente peso davanti alla necessità di sostenersi a vicenda sia nella vita, sia nella morte.
L’esito paradossale di questa operazione, di suo cinica e razzista quant’altre mai, fu che i sardi al fronte si sacrificarono sì più degli altri (13 su 100 non ritornarono a casa, contro una media italiana di 10 su 100), ma anziché maturare per questo il senso della propria appartenenza all’Italia, si convinsero invece che si stavano sacrificando per la Sardegna. Non per una Sardegna piegata e subalterna, ma per una Sardegna più libera e più forte. Così, mentre i bollettini di guerra e la propaganda governativa esaltavano le virtù dei sardi “eroici combattenti” e insignivano i due reggimenti sardi di medaglie d’oro e menzioni speciali, quelli cominciavano a pensare se stessi diversamente e proiettavano la propria immaginazione in un dopo, in un futuro post bellico, che sarebbe dovuto essere diverso e migliore per sé e per la propria gente.
Perché quella guerra fu la guerra della Sardegna al fronte. Su 800000 abitanti ne vennero richiamati sotto le armi 100000. Un ottavo della popolazione. Della popolazione, non degli uomini abili! Un uomo su quattro, compresi vecchi e bambini, partì in guerra, lasciando la propria occupazione, la propria famiglia, il proprio villaggio, sottraendo alla comunità braccia, forze e presenza. L’assenza prolungata e ancor più il mancato ritorno di un soldato corrispondevano alla miseria di un’intera famiglia, spesso.
Costruire una retorica di appartenenza su una tale tragedia ha di suo qualcosa di malato. I reduci dal conflitto sapevano bene quale porcheria esso fosse stato. La narrazione eroica sulla Brigata Sassari nasce dopo, nasce dalla necessità di compensare con dosi tossiche di orgoglio la costrizione ad integrarsi in un ambito a cui ci si sentiva estranei. Orgoglio e integrazione sono due elementi indispensabili nella costruzione dell’identità sarda “regionale” e “autonomista”, che trovano nella Brigata Sassari e nel suo mito tecnicizzato un punto di incontro e di sintesi. Senza il quale le argomentazioni a favore della necessità che i sardi debbano sacrificarsi per l’Italia, per poterne ricevere il sostegno e la tutela, non reggerebbero molto.

Pensiamoci, quando salutiamo commossi i “nostri ragazzi” che, armi in pugno, partono per qualche scenario di guerra in nome degli interessi italiani. E pensiamoci quando qualcuno di loro torna indietro dentro una bara”.

Fonti:
Emilio Lussu, Il cinghiale del diavolo, Ilisso, 2008 p.56
Omar Onnis, Tutto quello che sai sulla Sardegna è falso, Arkadia, 2013 pp. 38-39

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